Tra esegesi e spiritualità: Giovanni Cassiano e Paolo Apostolo
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SKOPOS E TELOS
La distinzione fra skopos e telos proposto da Giovanni Cassiano nella sua prima Conferenza è stata già analizzata dagli specialisti[1]. Per Cassiano lo skopos, il proposito, è il primo obiettivo raggiunto che si può conseguire; è il fine ultimo, il telos, la finalità ultima a cui tutto è subordinato[2]. Generalmente si può dire che il primo obiettivo è legato alla purezza del cuore e alla carità, il secondo alla contemplazione e alla vita eterna[3]. Questo articolo cercherà di mostrare l’ispirazione biblica e sopprattutto il ruolo che i testi di san Paolo giocano in questa teoria - l’aspetto che non è stato ancora sufficientemente studiato[4].
Si sa che Giovanni Cassiano, formulando la sua teoria riguardo allo skopos e al telos, aveva dietro di sé la tradizione ellenistica o piuttosto stoica[5]. Essa, considerando gli aspetti morali, riteneva che lo skopos fosse uno scopo ideale, che si sarebbe espresso in una parola astratta o nella intenzione; invece che il telos fosse la realizzazione dell'ideale, un atto[6]. Ma pare che - come dice S. Marsili - "tra gli Stoici e Cassiano più che i termini e la distinzione non vi sia altro di comune. Il fondamento stesso, o punto di distinzione è differente"[7]. Dall'altra parte, Cassiano poteva ereditare l'insegnamento diffuso nella scuola alessandrina, incominciando da Clemente d'Alessandria[8], dove - parlando molto generalmente - lo skopos significava, fra le altre cose, una perfetta osservanza dei comandamenti, e il telos si riferiva alle realtà escatologiche[9]. Con i Padri Cappadoci[10] e con Evagrio[11] questi vocaboli sono stati inseriti nel movimento monastico. Soprattutto la parola skopos veniva riservata alla vita ascetica o puramente monastica[12]. Però la forma finale di una dottrina, legata con questi due termini, che è diventata la più conosciuta, e ha influito in seguito maggiormente sulla tradizione è questa di Cassiano. In essa i testi paolini hanno un posto privilegiato.
All'inizio della sua spiegazione Cassiano dice: "Il fine (finis) del nostro cammino è indubbiamente il regno di Dio, o regno dei cieli, ma la via ( destinatio uero, id est scopos) che ad esso conduce è la purezza del cuore, senza la quale nessuno può raggiungere quel fine"[13]. Si trova qui dunque la distinzione stoica fra skopos (nel latino di Cassiano tradotto come "destinatio") e telos (tradotto come "finis"). La prima realtà è stata legata, come già è stato detto, alla purezza del cuore, la seconda alla vita eterna o al regno di Dio[14]. Si sente chiaramente in questa frase l'eco dell'insegnamento o dei suggerimenti proposti dalla tradizione precedente.
Qualche riga più avanti l'Autore, per spiegare meglio il suo pensiero, si serve dall'immagine dei tiratori d'arco. Poi confronta la sua concezione con la Bibbia, o più precisamente, con i testi di san Paolo e dice: "Applichiamo ora l'immagine alla professione monastica. Il suo fine (finis) è la vita eterna, dice infatti l'Apostolo: 'Voi avete come frutto la vostra santificazione (sanctificatio), come fine (finis) la vita eterna'(Rom 6,22)"[15].
Il legame fra Paolo e Cassiano è chiaro. Il termine telos, abbastanza diffuso nel Nuovo Testamento[16], è tradotto dal nostro monaco con "finis" e legato con la vita eterna. Però nel testo paolino manca la parola skopos, senza la quale tutto lo schema cade. Infatti, non esiste nella Bibbia nessuna frase dove i due termini si trovino insieme. Cassiano allora lega i due termini insieme elaborando una certa interpretazione e così "completa" il testo ispirato, dicendo in seguito:
"La via (scopos) che porta alla fine è la purezza del cuore, che l'Apostolo giustamente chiama santità (sanctificatio). Senza di essa è impossibile reggiungere il fine (finis); è come dire in altre parole: la vostra via (scopos) è la purezza del cuore, il termine d'arrivo (finis) è la vita eterna"[17].
L'Autore per sostenere tutta la sua concezione, costruisce un ponte fra le parole usate dall' Apostolo. Lega, dunque, "sanctificatio" (hagiosmòn), "puritas cordis" e skopos, sostituendo la prima con le altre due.
Ma sembra che Cassiano stesso, non essendo convinto di questa prova che poteva essere considerata come troppo "retorica", abbia usato un altro brano dell'Apostolo, dove si trovava la parola skopos. Questo non era cosa ovvia. Esigeva invece una conoscenza precisa della Bibbia e del greco. Infatti, la parola skopos, presente in Fil 3, 14 e usata da Cassiano, è hapax legomenon del Nuovo Testamento e nella traduzione latina non spiccano adeguatamente il suono e il significato originario. Era necessaria una sottile spiegazione e Cassiano la dà. Dice:
"Il santo Apostolo, parlando altrove della nostra meta (destinatione...id est scopon), dice: 'Dimenticando quel che mi è dietro le spalle, e slanciandomi alle cose davanti, vado dietro al segno (destinatio), per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio' (Fil 3, 13-14). Il testo greco è in questo luogo ancor più chiaro: esso suona così 'kata skopon dioko', cioè vado dietro al segno (destinatio). E' come se l'Apostolo dicesse: 'Nel mirare al bersaglio (destinatio), io dimentico ciò che sta dietro a me - cioè i vizi dell'uomo carnale - e cerco di raggiungere il mio fine che è il premio celeste'" [18].
Il termine greco skopos è stato tradotto con "destinatio". Poi è da notare anche che la parola "idem" (lo stesso!) nella citazione appena presentata ha un ruolo importante in tutta questa argomentazione. Cassiano infatti usa questo secondo brano come complementare al primo. Ecco "lo stesso" Apostolo, che parlava di telos, adesso parla su skopos. Dunque, si possono mettere insieme le due parole che si trovano separate nella Bibbia e così si salva la logica dello schema skopos-telos. Dunque le lettere paoline o la persona dell'Apostolo ("idem") sono servite come un nodo per legare le due realtà e le due parole. Così la teoria è stata inserita nella Bibbia.
Ma più importante è la lettura attenta di questo brano fatta dal nostro Autore che in primo luogo ha distinto fra "destinatio" (skopos) e "brauium" ("brabeion"). Dietro le spalle stava l'immagine delle corse nello stadio e così il primo termine si riferirebbe a "correre nello stadio verso la meta", il secondo a "ricevere il premio"[19]. Ma la distinzione non era tanto chiara quanto la voleva forse Cassiano. Però in seguito abbiamo a che fare nuovamente con un certo "gioco". Nel testo paolino si notano i due movimenti: (1) dimenticare il passato ("quae posteriora sunt obliuiscens"); e (2) correre verso il futuro ("ad ea uero quae in ante sunt extendens me"), verso la meta ("ad destinatum - skopos - persequor"), verso il premio ("ad brauium supernae uocationis domini"). Si vede che lo skopos si colloca nel secondo movimento e significa una andata, un passo avanti. Invece Cassiano lega lo skopos ("destinatio") con il primo movimento (dimenticare il passato) e dice: "Nel mirare al bersaglio (destinatio), io dimentico ciò che sta dietro a me" e aggiunge: "cioè i vizi dell'uomo carnale".
Così il brano di san Paolo è stato inserito nel contesto del sistema ascetico di Cassiano, nel quale per raggiungere la purezza del cuore (skopos) si devono vincere i vizi seguendo i precetti del vangelo[20]. In altre parole - in riferimento anche al vocabolario di san Paolo - occorre lasciare o combattere l'uomo antico, terrestre o animale[21].
Ma il "gioco" interpretativo[22] ha ancora un secondo sviluppo. In tutta questa spiegazione mancava la parola telos ("finis"). E perciò l'Autore prende la frase già conosciuta, cioè: "per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio", e cambia le parole dicendo: "cerco di reggiungere il mio fine (finis) che è il premio celeste". Così termina il nucleo della sua argomentazione.
Dopo, ma soltanto come una conseguenza di queste considerazioni, Cassiano confronta la sua tesi, la quale dice che skopos è la rinuncia all'uomo antico, con 1 Cor 13, 3-5[23]. Così ritorna all'aspetto positivo, o se si vuole, a questo secondo movimento di Fil 3,14. Andare avanti, correre verso la meta, significa, accanto alla rinuncia all'uomo antico e accanto al combattimento con i vizi, anche la vita secondo amore. E così Cassiano arriva alla formula secondo la quale la purezza del cuore e lo skopos sono legati con l'amore: "Bisogna dunque esercitare le virtù secondarie - digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre Scritture - in subordinazione alla virtù principale, che è la purezza del cuore o carità (propter principalem scopon, id est puritatem cordis, quod est caritas)"[24].
Invece nella parte successiva di questa conferenza, ma non in modo diretto, il tema del fine (telos), legato con il regno di Dio o con il regno celeste, sarà elaborato ancora maggiormente, specialmente sulla base dei testi escatologici dell'Apostolo e in confronto con la teoria sulla contemplazione[25].
In conclusione si può dire che Cassiano, costruendo la sua teoria basata sui due termini telos e skopos: (1) era un erede della tradizione ellenistica, nella quale specialmente la scuola stoica distingueva il significato di questi termini nella sua riflessione; (2) conosceva probabilmente l'unione fra skopos e la vita secondo i precetti del vangelo, e fra telos e la vita eterna elaborata negli ambienti alessandrini (Clemente, Evagrio); (3) aveva anche dietro di sé la tradizione ascetica o monastica in cui soprattutto il termine skopos era usato per definire l'ideale di questa tradizione. Però il merito di Cassiano, in questa lunga serie di riflessioni, era di inserire con forza e chiarezza ambedue i termini nel contesto biblico - in particolare paolino. E così è stata precisata la dottrina classica per la spiritualità monastica posteriore che legava, da una parte, skopos con la purezza del cuore e con la carità e, dall'altra, telos con la contemplazione e la dimensione escatologica. In questo caso si osserva da una parte il ruolo principale e ispirato che proveniva senz'altro dall'Apostolo Paolo, dall'altra il genio della sintesi e la maestria nel campo dell'interpretazione scritturistica di Cassiano. Così le tre dimensioni: ellenistica, biblica e questa della tradizione patristico-monastica sono state unite, offrendo uno schema permanente e classico per la spiritualità.
SAN PAOLO, GIOVANNI CASSIANO E LE STRUTTURE "ARITMETICHE"
a) Le osservazioni generali
Si potrebbe dire che Cassiano amava le cifre. E se il lettore è un po' attento scoprirà cifre dappertutto. Esse giocano un ruolo importante nella struttura dell'Ufficio e della giornata[26], nel calendario[27] o nell'ordine dei Salmi[28]. Poi si osserva la grande cura con la quale l'Autore sottolinea una struttura "aritmetica" in tutta la sua opera letteraria cercando forse di dare a questa una dimensione estetica che corrispondeva alla sensibilità dell'epoca[29]. E così le due grande parti delle sue opere dedicate al monachesimo si dividono in quattro libri iniziali[30] e in otto libri sui vizi così da raggiungere il numero di dodici[31]. Occorre aggiungere i dieci libri delle Conferenze[32] a cui si devono unire ancora altre due parti composte da sette libri ciascuna[33] che fanno insieme il numero di ventiquattro che corrisponde allo stesso numero degli anziani dall'Apocalisse[34].
In seguito, soltanto per sottolineare la sua sensibilità in merito, voglio elencare ancora alcuni altri punti. Ci sono per esempio secondo Cassiano i due Testamenti[35], i due generi degli angeli[36] e tanti elenchi di numeri che ordinano i vizi[37] con i quali si potrebbe veramente fare uno schema molto elaborato che aprirebbe forse gli occhi sulla struttura della memoria e della mentalità di Cassiano. Poi si notano le tre specie di vocazioni[38], i tre gradi della rinuncia[39], i tre stati dell'anima[40], le tre fonti dei pensieri[41], le tre categorie (dal punto di vista dei valori) delle cose[42], le tre cose che rendono la preghiera impossibile[43] e le tre che la aiutano[44]. Sono ancora tre cose che spingono la gente a non peccare e che conducono alla perfezione[45], le tre specie della scienza spirituale[46] e i tre generi dei monaci[47]. Con il numero quattro sono legati per esempio le specie della preghiera[48], i sensi della Scrittura[49] o i mezzi per combattere i vizi in genere[50]. Si notano anche i sei gradi della castità[51]. Cassiano non dimentica anche di segnalare alcuni numeri presi dalla Scrittura anche se non hanno nessuna importanza riguardo alle spiegazioni, come i cenni sugli undici discepoli del Signore[52] e patriarchi[53] o sui dodici troni preparati per gli apostoli[54] o sui dodici figli di Giacomo[55], etc.
Insomma, si può dire che le strutture aritmetiche avevano per Cassiano una importanza abbastanza grande. Essa influiva sul suo modo di pensare ed esprimere le cose ed era legata fortemente con la sua esegesi. Però non esiste nessuno studio su questa materia riguardo all'opere di Cassiano, così come ne abbiamo per Agostino[56] o Cassiodoro[57], tutto resta ancora da studiare. Almeno una cosa sembra sicura: su qualunque aspetto della sua esegesi si porti lo studio, si deve includere questa dimensione. Qui vogliamo fare qualche osservazione che tocca i testi paolini.
Lasciamo da parte le considerazioni della conferenza undicesima basate su 1 Cor 13, 13, nella quale si parla della fede, della speranza e dell'amore come mezzi per combattere contro il peccato e per progredire verso la perfezione[58]. Lo schema, basato sul numero tre e legato alle tre virtù teologali, è chiaro. Prendiamo ora in considerazione i tre stati dell'anima, le tre forme della lussuria e dell'ira.
Cassiano allora suppone, basandosi sulla Scrittura, che ci sono tre stati dell'anima: lo stato carnale (carnalis), lo stato animale (animalis) e lo stato spirituale (spiritalis)[59]. Per confermare le sue tesi sui tre stati dell'anima, cita san Paolo e si riferisce soltanto alla prima lettera ai Corinzi e ai Galati. E così da 1 Cor 3, 2-3 prende la parola carnales, da 1 Cor 2, 14, dove l'Apostolo parla dell'uomo naturale, la parole animalis e da 1 Cor 2, 13 e da Gal 6, 1 la parola spiritalis. Questi tre termini provengono dai tre termini greci (presenti in questi stessi versetti, cioè: sarkikoi, psychikoi o psychikos e pneumatikoi o pneumatikos) e hanno influito su tutta l'antropologia del cristianesimo antico[60]. Però Cassiano non si riferisce al testo greco e non sviluppa qui un pensiero speculativo o un'antropologia molto elaborata. L'unica cosa che fa è un insegnamento morale (o meglio moralistico) abbastanza lungo, nel quale si riferisce ai monaci che sono tiepidi, cioè animali, e per questo peggiori di quelli freddi o carnali[61]. Si sente subito un tono critico e offensivo che fa pensare ai problemi pratici del monachesimo provenzale già nella prima metà del quarto secolo. Dietro certamente sta anche il versetto dall'Apocalisse 3, 15-16. Ma in genere questa parte, al di fuori della prospettiva unicamente moralistica, non presenta un interesse più specifico.
b) Le tre specie della lussuria e dell'ira
Nelle opere monastiche è soprattutto il tema dei vizi che è stato fortemente legato, strutturalizzato o schematizzato ai numeri. Le speculazioni, qualche volta per noi divertenti, si trovano specialmente nella conferenza quinta. E proprio là nel capitolo undicesimo, Cassiano presenta tutta la catena delle divisioni nelle quali un ruolo principale è giocato dal numero tre (le tre specie della golosità[62], alle quali corrispondono i tre mezzi contrapposti[63], le tre forme della lussuria[64], le tre forme dell'avarizia[65] e le tre forme dell'ira[66]). Là anche sono utilizzati i testi paolini.
Il punto di partenza per la lussuria è: "Fornicationis genera tria sunt"[67]. Il primo grado consiste in un contatto sessuale fra l'uomo e la donna ("per conmixtionem sexus"), il secondo quando si tocca la donna ("femineo tactu") e il terzo si riferisce soltanto ai pensieri ("quod animo ac mente concipitur"). Il primo è proposto senza nessun riferimento biblico, il secondo si riferisce al peccato di Onan di Gen 38 e a 1 Cor 7, 8-9, il terzo al Mt 5, 28. Si vede che c'è una conseguenza logica che va dalle cose più gravi e ovvie a quelle più fini e nascoste. Però, come se questo non bastasse, Cassiano sottolinea che tutte le tre forme sono state anche proclamate da Paolo. Cita allora la lettera ai Colossesi 3, 5 dove sono elencati di seguito (secondo il testo latino) fornicatio, inmunditia e libido, e in seguito la lettera agli Efesini 5, 3 e 5 dove ritornano fornicatio ed inmunditia[68]. Non si sa però a quale genere di lussuria corrisponda uno di questi nomi. Infatti, a fornicatio, inmunditia e libido nel testo greco (al quale Cassiano non si riferisce) corrispondono porneia, akatharsis e pathos. Essi in realtà sono molto simili nel significato. Inoltre, queste parole sono strappate da un contesto paolino di elenchi che enumerano in ciascun caso ancora diversi generi di "vizi". E così accanto alle tre parole che corrispondono ai tre generi di lussuria in Col 3, 5, si trovano ancora i desideri cattivi e l'avarizia; e nel caso della lettera ai Efesini 5, 3 e 5 accanto della fornicazione e impurità appare anche l'avarizia e la cupidigia. Sembra però che lo schema paolino nei tre brani usati da Cassiano è duplice, cioè da una parte abbiamo i peccati della lussuria (in greco si vede questo ancora più chiaramente) e dall'altra quelli legati all'avarizia. In conclusione si può dire che nel testo di Cassiano si osserva una lettura tendenziosa che non ascolta tanto il testo scritturistico ma lo inclina ai suoi progetti o presuppositi legati al numero tre. Dobbiamo qui considerare anche un processo di strutturalizzazione o schematizzazione che ha dominato la teologia latina nei secoli seguenti. Un primo approccio è stato fatto fra gli altri da Cassiano.
Qualche riga più avanti, abbiamo una cosa simile. Giovanni Cassiano presenta i generi dell'ira. Incomincia come nel caso precedente dicendo: "Irae genera sunt tria"[69]. E poi, presenta questi tre generi usando però soltanto la terminologia greca e riferendosi alla lettera ai Colossesi 3, 8:
"Il primo è fuoco che arde dentro: i greci la chiamano 'thumos'. Il secondo si manifesta violentemente nelle parole e negli atti. I greci lo chiamano 'orge'. Di questi due primi generi, così parla l'Apostolo: 'Buttate via anche voi tutte codeste cose: ira, animosita'(Col 3, 8). Il terzo genere d'ira, non è come i due primi, una fiamma di poca durata, è un fuoco che cova per giorni e mesi. I greci lo chiamano 'menis'"[70].
Prima si deve dire che le tre parole greche propriamente si riferiscono all'ira. Ad un primo sguardo sembrano simili, però se si studia il loro contenuto più attentamente si vede che le attribuzioni fatte da Cassiano sono molto giuste. Thumos può significare veramente, fra l'altro, la sede dell'ira e delle emozioni e così corrisponde alla dimensione interiore che sottolinea Cassiano. Orge si lega propriamente alla rabbia, all'atto della collera, e menis esprime uno stato prolungato nel tempo che può essere chiamato anche corruccio[71]. Si vede però che nel caso del testo di Cassiano abbiamo a che fare con una riflessione e sistematizzazione già sviluppata.
Il ruolo principale è sostenuto dal numero tre. E quando viene citato il testo paolino di Col 3, 8 copre soltanto due dei termini greci, cioè: thumos e orge. Il terzo termine non si trova nel Nuovo Testamento. Si nota che il testo paolino qui usato elenca dopo queste parole anche gli altri "vizi": malizia (kakia), maldicenza (blasfemia) e parole oscene dalla bocca (aischologia), che non entrano nello schema di Cassiano. Di nuovo abbiamo a che fare con un uso dei testi sacri molto tendenzioso. Si pone una domanda: lo schema dei tre generi d'ira è stato creato per il monaco di Marsiglia? O forse ha una fonte nella filosofia greca? O forse ancora un'altra? Perché ha usato il testo paolino?
A mio parere, dietro questo problema sta un brano tratto dal Siracide 27,30 - 28,19 che considera il tema dell'ira, del rancore o delle liti. Si vede, nella versione dei Settanta, che i tre termini greci là vengono usati: due volte menis (Sir 27, 30 e 28, 5), tre volte orge (27, 30; 28, 3 e 10) e due volte thumos (28, 10 e 19)[72]. La traduzione della Volgata trascura completamente le differenze fra i termini traducendo menis sempre con ira, orge con furor o ira, e thumos con irascendia. Si nota anche che il testo dei Settanta mette insieme in una riga menis e orge (Sir 27, 30 e 28, 3-5) e dopo si trovano anche insieme thumos e di nuovo orge (Sir 28, 10) che vengono in seguito usati da san Paolo in Col 3, 8 soltanto con un ordine inverso, cioè prima orge e dopo thumos. Cassiano invece segue l'ordine del Siracide nella versione dei Settanta, anche se si riferisce direttamente ai testi di Paolo.
Alla fine si può dire con grande probabilità che la fonte per la sua sistematizzazione dell'ira nella conferenza quinta, sta nel testo del Siracide nella versione dei Settanta. Cassiano però trascura totalmente questa fonte (come lo fanno anche tutte le edizioni delle sue opere) e si riferisce soltanto a Paolo. Penso che il monaco di Marsiglia fosse erede di una tradizione egiziana che già prima aveva riflettuto sul problema dei vizi, apprezzando molto i libri sapienziali e speculando su di essi facendo schemi e divisioni. Forse Cassiano aveva sotto mano un manuale, un riassunto proveniente da questa tradizione, o la ricordava bene. L'uso della lettera ai Colossesi 3, 8 poteva essere infatti un caso o forse il brano si trovava in alcune "catene" della Scrittura che Cassiano possedeva. Siamo nel campo delle ipotesi. Una risposta potrebbe riempire "il buco" che sta fra il testo del Siracide e la sistematizzazione dei generi dell'ira proposta da Cassiano e legata a Col 3, 8. Gli studi sulle fonti e sull'esegesi dell'Autore possono dare qualche risposta nel futuro.
c) I quattro modi della preghiera
Con il numero quattro sono legati i modi della preghiera e i famosi sensi della Scrittura. Come nei casi precedenti, ci interessa il ruolo e il modo di usare i testi dell'Apostolo in Cassiano. Tutta la spiegazione delle quattro specie della preghiera è stata stesa fra i due versetti dell'Apostolo. Il primo, che sta anche come principio della spiegazione, proviene da 1 Tm 2, 1[73] e il secondo, che la conclude, viene citato da Fil 4, 6[74]. Cassiano suppone che proprio l'Apostolo in 1 Tm 2, 1 distingue queste quattro forme[75] fra le quale sono: le preghiere (in latino obsecrationes; in greco al quale l'Autore non si riferisce deeseis), le supplicazioni (in latino orationes; in greco proseuches); le invocazioni (in latino postulationes; in greco enteuxeis) e le azioni di grazie (in latino gratiarum actiones; in greco eucharistias)[76]. E poi spiega attentamente ciascuna specie arrichendola di contenuto dicendo che alle obsecrationes corrispondono le preghiere dell'uomo cosciente del suo peccato che chiede il perdono[77], le orationes sono gli atti nei quali consacriamo o offriamo qualcosa a Dio[78], le postulationes esprimono le nostre domande rivolte a Dio per noi stessi o per gli altri[79]. Finalmente le gratiarum actiones significano l'atto di ringraziamento rivolto a Dio per tutte le cose che ha già fatto e che ha preparato per noi in futuro[80].
La stessa terminologia, soltanto nell'ordine diverso, chiude la spiegazione dell'Autore sulle quattro specie della preghiera con il brano di Fil 4, 6. In seguito sono elencati nella forma singolare: oratio, obsecratio e l'espressione che mette insieme i due termini, già conosciuti dell'elenco precedente, per creare la formule: gratiarum actione petitiones[81]. E' interessante da notare che Cassiano, spesso così attento alle sfumature linguistiche, quando queste possono essere usate per il suo scopo, si riferisce al greco. Qui però ha trascurato il fatto che nell'ultima espressione di Fil 4, 6 gratiarum actione petitiones (come lo traduce la Volgata e che Cassiano usa in questo caso), viene resa nel testo greco con l'espressione eucharistias ta aitemata. E così al posto delle enteuxeis di 1 Tm 2, 1 è stata messa in Fil 4, 6 la parola diversa, cioè aitemata, però con un significato molto simile. Le ambedue parole sono state tradotte in latino con petitiones. Tutti gli altri termini greci e anche la traduzione latina sono gli stessi. Si può dire che il monaco di Marsiglia aveva uno scopo parenetico e morale per le sue opere monastiche e da questo dipendeva in alcuni casi la sua esegesi. Le regole e il metodo non erano sempre i medesimi e non erano usati rigorosamente.
Si vede questo anche nell'altro aspetto legato al tema delle quattro specie di preghiera. In principio l'Autore sottolinea con forza che secondo lui anche l'ordine di queste quattro specie proposte dall'Apostolo: "contiene qualche speciale insegnamento. Perché non è credibile che lo Spirito Santo abbia detto qualcosa per bocca di san Paolo oziosamente e senza una ragione"[82].
Qui è presentata una regola importante per l'interpretazione della Scrittura; in questa prospettiva sono ispirate non soltanto le parole e il loro significato ma anche l'ordine e forse anche il numero[83]. Ma ci si può, o ci si deve, domandare: Cassiano osserva sempre questa regola? E, se no, perché la mette proprio là? La risposta è semplice. Tutta questa bella teoria serviva a lui molto bene per riscrivere il processo del progresso della preghiera nella vita spirituale iniziando dai principianti e finendo allo stato della contemplazione ormai perfetta[84].
D'altra parte, prima di citare il secondo versetto dell'Apostolo di Fil 4, 6, dove l'ordine è chiaramente diverso, non dimentica di mettere in evidenza, che finalmente queste quattro specie della preghiera appena spiegate con grande cura e attenzione "devono fondersi in unica supplica"[85]. Dietro tutto questo si riconosce soprattutto Cassiano come pedagogo, che sa usare i metodi e le regole, però senza esserne schiavo. O forse non voleva o non poteva essere tanto conseguente.
d) I quattro sensi della Scrittura.
Riguardo ai quattro sensi della Scrittura, il pensiero di Cassiano è stato posto sui due testi di san Paolo: Gal 4, 22-27 e 1 Cor 14, 6. Verso di essi confluiscono anche gli altri: 1 Cor 10, 1-4; 11, 13; 15, 3-5; Gal 4, 5; 1 Ts 4, 12-15; e dall'Antico Testamento: Dt 6, 4; Sal 147, 12; Pr 22, 20; 31, 21; giocando però un ruolo secondario[86]. Nonostante gli studi molto vasti di H. de Lubac[87], e di M. Olphe-Galliard[88], tutto il lavoro più attento sui quattro sensi della Scrittura in Cassiano resta ancora da fare. Qui vogliamo fermarci sui testi paolini proponendo soltanto un approccio che resterà molto superficiale.
All'inizio della sua spiegazione Cassiano interpreta, in modo molto retorico, Pr 31, 21 e 22, 20[89] e propone (o suppone?) i quattro generi d'interpretazione per la Scrittura[90]. Essi sono: historia, allegoria, anagogia e tropologia. Cassiano utilizza Gal 4, 22-23 per interpretare i primi tre generi. Il genere quarto (tropologia) è stato illustrato con un versetto del Salmo 147, 12. Però dal vocabolario scritturistico in questo caso proviene soltanto il secondo genere, cioè allegoria (Gal 4, 24), uno hapax legomenon del Nuovo Testamento. Gli altri termini non si trovano nell Nuovo Testamento. E' da notare che anche nel contesto della versione dei Settanta soltanto il termine greco historia, che Cassiano usa senza riferirsi alla sua origine greca, si può indicare in 2 Mach 2, 24,30,32. Si potrebbe dunque dire che Cassiano semplicemente nomina o suppone i quattro sensi della Scrittura. Da una parte lui è erede della tradizione precedente, ma, d'altra parte, "dilata la tripartizione dei sensi scritturistici (...) in una quadripartizione destinata ad avere fortuna nell'esegesi medievale"[91].
Cassiano a conferma della sua teoria, dopo avere spiegato le quattro specie della Scrittura, si riferisce all'Apostolo e cita 1 Cor 14, 6. Essa è certamente strappata dal suo contesto, dove si trovano di seguito contrapposti all'inutile glossolalia: rivelazione, scienza, profezia e dottrina[92]. Le righe seguenti commentano ciascuna di queste parole e le legano con i quattro generi, o quattro nomi, già elencati, per l'interpretazione della Scrittura[93]. In questo caso l'Autore trascura totalmente la versione greca di 1 Cor 14, 6 che farebbe questo "salto esegetico" abbastanza difficile e crea le quattro catene di termini che non hanno significato tanto identico. Nell'elenco proposto di seguito, la prima parola proviene dalla prima sistematizzazione di Cassiano, la seconda dal testo latino di 1 Cor 14, 6 citata da lui (non secondo l'ordine proposto da Paolo), la terza dal testo greco assolutamente trascurato dall'Autore:
1) historia - doctrina - didache
2) allegoria - reuelatione - apokalypsis
3) anagogia - prophetia - propheteia
4) tropologia - scientia - gnosis
Per historia Cassiano intende solo la coscienza degli eventi passati che si può vedere: "praeteritarum ac uisibilium agnitionem conplectitur rerum"[94]. Poi cita il brano dalla lettera ai Galati 4, 22-23 sui due figli di Abramo.
In un altro luogo, sotto il nome di doctrina, afferma che si deve considerare una pura e ordinata narrazione storica, che non vuole dire nient'altro di ciò che suona nelle parole del racconto ("doctrina uero simplicem historicae expositionis ordinem pandit, in qua nullus occultior intellectus nisi qui uerbis resonat continetur"[95]). Per confermare la sua opinione cita qui tre testi: uno da 1 Cor 15, 3-5 sul fatto della risurrezione di Cristo, il secondo da Gal 4, 4-5 sul "fatto" che Dio ha mandato suo Figlio, e il terzo che ripete il comandamento dal libro del Deuteronomio 6, 4: "Ascolta Israele, il Signore Dio nostro è il solo Signore". Si ha allora a che fare, quando si considera la dimensione storica della Scrittura, o con i fatti storici o con il suono delle parole. Ma mi domando: è veramente possibile identificare la parola historia con la parola doctrina (o con il termine greco didache che sta dietro)? Anche i brani scritturistici non sono tanto chiari. Il primo esempio è stato scelto bene, ma gli altre tre corrispondono di più alla dottrina nel senso del "mistero della fede". Tutta la spiegazione non è tanto chiara o si deve allargare molto di più il senso del termine historia, che fuori della semplice narrazione degli avvenimenti porterrebbe anche ad una dimensione di scienza, di istruzione, di dottrina o di "regola della fede". In effetti avremmo a che fare, in base a questa concezione, con la conoscenza fondamentale della Scrittura, la capacità di interpretazione legata con ciò che oggi potremmo chiamare "il catechismo".
Con il termine allegoria Cassiano intende ciò che è realmente accaduto ma è presentato come segno di un mistero profondo ("ad allegoriam autem pertinent quae sequuntur, quia ea quae in veritate gesta sunt alterius sacramenti formam praefigurasse dicuntur"[96]). Questo viene illustrato con il famoso brano di Gal 4, 24-25, dove si trova la stessa parola allegoroumena e dove si parla dei due figli di Abramo ai quali, infatti, corrispondono le due alleanze. Nel secondo caso allegoria è stata legata con la parola reuelatio (in greco apokalypsis). Cassiano dice che questo rivela il senso spirituale o la verità nascosta sotto la narrazione storica ("reuelatio namque ad allegoriam pertinet, per quam ea quae tegit historica narratio spiritali sensu et expositione reserantur"[97]). Si riferisce ad 1 Cor 10, 1-4 per la quale propone l'interpretazione che riguarda il battesimo e l'eucaristia. Di nuovo si pone la domanda sulla dimensione semantica delle parole: allegoria, reuelatio e apokalypsis. E' possibile legarli, però il senso di ciascuna di queste parole in questo contesto viene cambiata, allargata o approfondita.
Il terzo caso tocca la parola anagogia con la quale, secondo Cassiano, ci si eleva dai misteri spirituali ai più sublimi ed augusti ("anagoge uero de spiritalibus mysteriis ad sublimiora quaedam et sacratiora caelorum secreta conscendens"[98]). In questo punto l'Autore si riferisce a Gal 4, 26-27 dove si parla della Gerusalemme celeste. L'anagogia legata da Cassiano alla prophetia vuol dire che si eleva ogni parola a significati invisibili e futuri ("ad invisibilia ac futura sermo transfertur"[99]). E l'Autore pone una lunga citazione da 1 Ts 5, 12-15 sulla parusia del Signore, dove si riferisce alla dimensione escatologica. Però si può dire che in questo caso il significato della parola anagogia non soltanto è stato allargato e approfondito ma proprio cambiato. Infatti, il termine anagogia significa il movimento in alto, alzare l'ancora o alzare l'anima verso la divinità, o come nel verbo anago, utilizzato da Paolo, può significare risalire dai morti (Rm 10,7)[100]. Cassiano però sottolinea la dimensione escatologica, nel senso temporale che si riferisce al futuro!
Tropologia significa nel primo caso per Cassiano una spiegazione morale che riguarda la purificazione della vita, la formazione ascetica, e la scienza pratica o anche teoretica[101]. Nel secondo caso viene legata al termine scientia (in greco gnosis) nel quale l'Autore mette la capacità di discernere nella pratica tutto ciò che è buono e utile[102] e come esempio mette il versetto di 1 Cor 11, 13 che parla della donna che per la preghiera deve venire senza il velo. In questo caso i tre termini sono stati limitati soltanto alla dimensione morale.
Si vede che la problematica è vasta e si dovrebbe dedicarle uno studio molto più ampio e specializzato, che dovrebbe esaminare le fonti di Cassiano e il modo in cui egli stesso utilizza i quattro sensi nelle sue tre opere. Però questo trascende lo scopo e le possibilità di questo studio che voleva soltanto mostrare il ruolo dei testi paolini utilizzati da Cassiano.
Concludendo questo capitolo si può dire che: per Giovanni Cassiano le strutture "aritmetiche" avevano una certa importanza che proveniva sia dalla cultura ellenistica, sia dalla rilettura dei testi sapienziali della Bibbia fatta soprattutto negli ambienti monastici egiziani, sia dalle inclinazioni proprie dell'Autore. Cassiano purtroppo nasconde le fonti del suo pensiero in questo caso e spesso usa direttamente e soltanto i testi paolini. Il loro uso spesso inclina alle strutture "aritmetiche" e sottolinea più degli aspetti sapienziali quelli morali (o moralistici) nei quali prevale la tendenza alla sistematizzazione.
PREGARE INCESSANTEMENTE
L'espressione di san Paolo: "Sine intermissione orate" (1 Ts 5, 17) fin dal principio ha ispirato i Padri della Chiesa[103]. Non meraviglia, dunque, che il monachesimo, anche fin dai suoi principi si è riferito a questo brano, cercando di mettere in prattica e approfondire intellettualmente il precetto dell'Apostolo[104]. Non poteva dunque mancare questo aspetto nell'opera di Cassiano che si trovava proprio nella corrente di questa tradizione patristica e monastica, scritta e orale[105].
E' interessante notare che le altre indicazioni del Nuovo Testamento che potrebbero ispirare o almeno servire come punti di riferimento sul tema della preghiera continua, come Lc 18,1 e 21,36, Rm 12,12, Col 4,2 e Ef 6,18, non sono presenti in modo esplicito nelle opere monastiche di Cassiano. Invece la frase di 1 Ts 5,17: "Sine intermissione orate" viene citata sette volte[106]; inoltre ci sono alcuni riferimenti non espliciti[107]. Essa è dunque una delle citazioni di san Paolo più usate dal nostro Autore. Qui ci interessa il contesto nel quale questo brano viene citato, interpretato e quale risposta trova nella visione della vita monastica proposta da Giovanni Cassiano.
Il primo punto da considerare, per capire bene il problema, consiste nel fatto che Cassiano si riferisce ai monaci e legge, usa o interpreta 1 Ts 5,17 nel contesto di un monastero. Ad un primo sguardo questa attenzione sembra ovvia. Però, possiede le sue conseguenze che si estendono lontano. Soprattutto perché la prospettiva o il clima è sublime e raffinato. Ecco perché intorno a questa citazione si trovano non a caso citazioni come questa: "il fine del monaco e il culmine della perfezione, nella preghiera perfetta"[108]; o questa:
"Queste cose che sembrano da poco - anzi da nulla - e sono perciò comunemente ammesse dagli uomini della nostra professione, viste nella giusta luce, appaiono gravissime. Non sono certo meno gravi, per la nostra coscienza di monaci, di quel che siano le grandi colpe per la coscienza degli uomini mondani. Le cosiddette "cose da nulla" impediscono al monaco di purificarsi dalle scorie terrestri, per poi elevarsi a Dio. Elevarsi a Dio: ecco dove il nostro cuore dovrebbe tendere incessantemente; la più piccola separazione dal sommo Bene dovrebbe sembrarci una morte: la peggiore delle morti[109].
Il monachesimo, per realizzare questo ideale, portava anche a creare le strutture esterne. Cassiano ne sottolinea due: la separazione dalla cosiddetta vita del mondo e l'organizzazione dell'Ufficio divino[110]. Questi potevano avere influsso sulla sensibilità ed interpretazione della Bibbia. Da una parte, le strutture erano una risposta alle parole della Scrittura, dall'altra - una volta stabilite - si cercava di definire il loro posto con una interpretazione della Scrittura. Ecco perché intorno a 1 Ts 5, 17 troviamo in Cassiano anche una frase come questa che lega il comandamento dell'Apostolo con il lavoro e con la vita nel monastero: "Bisognerà lavorare; non già per desiderio di guadagno, ma per le sante necessità del monastero; questo è il mezzo per togliersi dalle inquietudini e dalle premure della vita presente e per rendere possibile l'adempimento del comando apostolico 'Pregate senza mai cessare'"[111].
In quale modo modo tuttavia poteva un monaco rinunciare a tutte le sollecitudini e quali erano le differenze fra le cure per il mondo e quelle pratiche per il monastero? Questo era un problema aperto al quale Cassiano e la tradizione monastica cercavano di dare una risposta adeguata.
Alcuni considerazioni di Cassiano, riguardo alla preghiera continua, vengono proposte nel contesto dell'Ufficio divino. Lui stesso pone la domanda: "Chi è tanto accorto e vigilante da non lasciarsi mai distrarre dal senso della sacra Scrittura, mentre sta cantando un salmo al Signore? Chi è tanto penetrato nell'intimità divina da poter dire di aver osservato per un giorno solo il comando dell'Apostolo: 'Pregate senza mai cessare?'"[112].
In altri luoghi, il brano di 1 Ts 5,17 ci appare nel contesto della preghiera della sera ("occasum solis orationes"[113]), il che vuol dire nel contesto dei Vespri o semplicemente in riferimento a un certo momento stabilito per la preghiera ("orationis horam"[114]). Però nel monastero di Cassiano non esisteva "laus perennis" e certamente egli sapeva che non per questa strada veniva risolto il problema della preghiera continua. Dice infatti: "Chi prega soltanto quando sta in ginocchio, prega pochissimo. Chi, mentre sta in ginocchio, si lascia prendere dalle distrazioni, non prega affatto"[115]. Con questa ultima frase viene stabilita una vera prospettiva nella quale egli considera il problema della preghiera continua. Le forme esterne, come quella di separazione dal mondo o quella del ritmo delle ore stabilite per l'Ufficio, stabiliscono una certa struttura che nella sostanza deve essere interiorizzata.
Così anche Cassiano stesso annunciava la sua proposta nel libro delle Istituzioni[116] e nella prefazione alle Conferenze[117]. Dalla dimensione esterna, come poteva suggerire il testo paolino considerato letteralmente, passava a quella interna, cercandone la risposta. In altre parole, si potrebbe dire che lasciava lo spazio e il tempo oggettivo, e prendeva quello soggettivo che si può chiamare "uomo interiore" o "vita invisibile". Con questa svolta si potrebbe dire che l'Autore, vedendo che non era possibile compiere questo comandamento letteralmente, è passato dalla dimensione temporale e quantitativa a quella interiore e della qualità della preghiera. L'espressione "senza interruzione" mutava e diventava "sincerità" o "senza distrazioni". Dopo di questo, il ritorno alle dimensioni esterne era possibile, ma prima si doveva stabilire il fondamento. Notiamo gli elementi principali di questa concezione che si collega con tutto il sistema ascetico o antropologico dell'Autore.
In primo luogo si può dire che, secondo Cassiano, il compimento del precetto dell'Apostolo: "Sine intermissione orate", è strettamente legato con il combattimento contro gli otto vizi, e in seguito con la purezza del cuore. Direttamente cita 1 Ts 5, 17 quando parla nelle Istituzioni sull'ira, ponendo la domanda: come è possibile, in genere, pregare, se nel cuore si porta ira? E in seguito: come dunque, avendo l'ira si può compiere il precetto dell'Apostolo sulla preghiera perpetua?
Dice: "E allora come potremmo (...) - se siamo in preda all'ira - di offrire a Dio le nostre orazioni? A coloro, ai quali l'Apostolo rivolge questo precetto: 'Pregate senza interruzione', comanda pure di 'pregare in ogni luogo, elevando mani pure, senza collera e senza contese'"[118].
Qui abbiamo a che fare con un'unione di tre elementi: (1) una dimensione temporale ("sine intermissione") che proviene da 1 Ts 5, 17; (2) una dimensione spaziale ("in omni loco") da 1 Tm 2, 8; (3) ed una dimensione interiore basata sulla catena che esce da 1 Tm 2, 8 che tratta delle "puras manus sine ira" che chiaramente si unisce con "puritas cordis". Poiché dietro al pensiero di Cassiano, vi è la presupposizione, che nella preghiera la cosa più importante è il nostro cuore, e ciò che sta nel cuore è offerto a Dio. E se vi fosse l'ira nel cuore (o qualsiasi altro vizio), paradossalmente si offrirebbe a Dio proprio questo durante il tempo della preghiera. Non pregando così neppure nel tempo destinato alla preghiera, non si prega mai. La preghiera e la vita virtuosa sono infatti unite. L'Autore dice: "Ne deriva perciò questo risultato, o di non pregare mai, mantenendo nell'animo nostro un tale veleno in contrasto con il comando dell'Apostolo e del Vangelo che c'impone di pregare sempre e in ogni luogo. Oppure, ingannando noi stessi, presumere di presentare le nostre preghiere nonostante il suo divieto, poiché, in tal caso, dovremmo riconoscere di non offrire a Dio delle preghiere, ma unicamente l'alterigia ostinata, dovuta a uno spirito di ribellione[119].
Il secondo aspetto che ritorna con 1 Ts 5,17 si potrebbe chiamare "la concentrazione" o con la forma di domanda: "come pregare senza distrazioni?" Cassiano parla per esempio del pensiero o del cuore distratto ("vaga mens", "evagatio cordis"[120]) ed a questi contrappone un'anima stabile ("animae stabile firmitatem"[121]). Spesso dunque ritorna la domanda (o il problema): "Che cosa si deve fare per fermare il pensiero su Dio?"[122] Infine dunque, nella prospettiva del pensiero di Cassiano, la preghiera continua si identifica con la preghiera pura.
Ma i due aspetti vengono distinti. Il primo si colloca nel contesto liturgico o nel tempo stabilito per la preghiera. La domanda che ora viene è questa: "Come durante il tempo stabilito e dedicato unicamente a Dio, l'uomo può essere anche totalmente e unicamente per Lui?"[123] Perché - secondo Cassiano - non prega mai colui che si inginocchia ma è distratto[124]. La risposta che veniva data sottolineava il fatto (fuori della necessità della vita virtuosa già sottolineata) che durante la preghiera viene fuori tutto ciò che ci preocuppava prima[125]. Finalmente tutto lo sforzo del monaco si dovrebbe concentrare sul fatto della unità della vita, per sottoporre tutto alla preghiera[126].
Il secondo aspetto metteva in rilievo la domanda: "Come si può prolungare questo stato senza fine per compiere perfettamente il precetto dell'Apostolo?" Cassiano propone al lettore un ideale irraggiungibile[127]. Parla della dimensione perpetua della preghiera pura. Essa si caratterizza come una tranquillità della mente e scomparsa di ogni passione carnale, quando il cuore è unicamente rivolto al Bene altissimo[128]. Questo è uno stato, in cui scompaiono tutti i desideri e le immagini terrene; l'uomo diventa simile agli angeli ("Hac enim puritate, si dici potest, sensu mentis absorto ac de terreno situ ad spiritalem atque angelicam similitudinem reformato"[129]). Così il precetto dell'Apostolo "sine intermissione orate" sarà compiuto perfettamente. La preghiera diventerà non soltanto pura e sincera, ma questo stato spirituale abbraccerà tutto l'essere umano e le sue azioni ("quidquid in se receperit, quidquid tractaverit, quidquid egerit, purissima ac sincerissima erit oratio"[130]). Qui certamente abbiamo a che fare con un ideale che raggiunge la realtà escatologica, almeno nel modo nel quale la comprendeva il monaco di Marsiglia. Finalmente la preghiera ininterrotta, la preghiera pura, la purezza del cuore e la contemplazione si riunivano.
In conclusione è da notare che Cassiano aveva un grande interesse per 1 Ts 5, 17 che è uno dei brani paolini più usati nei suoi scritti monastici. Lo considerava nella situazione concreta di una comunità di monaci con un certo isolamento dal mondo e un ritmo della giornata dove vi erano ore fissate per la preghiera. E in questo caso pregare senza interruzione significava per lui essere senza altre preoccupazioni o distrazioni durante questo tempo determinato. D'altra parte, l'Autore era cosciente che per compiere questo precetto anche la vita doveva essere virtuosa. L'ideale della preghiera perpetua si legava con la sua concezione della purezza del cuore e alla fine con quella della preghiera pura. La dimensione temporale, indicata dall'Apostolo era congiunta con l'aspetto morale e possiamo dire intellettuale (concentrazione).
LA PRIMA E LA SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI E IL PROBLEMA DEL LAVORO
a) Osservazioni generali
Qui ci interessano i due capitoli delle due lettere ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 9-12 e 2 Ts 3, 6-15) che, fra gli altri testi scritturistici, stanno alla base delle spiegazioni di Cassiano riguardo al lavoro. Si nota che quasi tutto il decimo libro, o almeno la sua parte centrale delle Istituzioni, dedicato allo spirito dell'accidia, ha la forma di un "commento" a questi versetti[131]. I versetti di questi capitoli paolini (2 Ts 3, 8 e 10) sono citati anche nel primo libro delle Istituzioni[132] e 1 Ts 4, 9-12 nel libro secondo di questa opera[133]. Ma rimangono ancora gli usi marginali in comparazione con il libro decimo che resta, senza dubbio, centrale per il tema del lavoro.
In seguito, occorre notare che questi brani dell'Apostolo non sono presenti nelle prime due parti delle Conferenze, cioè dal primo al diciottesimo libro. Sembra che Cassiano abbia bene ripensato la struttura di tutta la sua opera così che i temi considerati nelle Istituzioni non sono ripetuti né nella prima parte delle Conferenze (i libri da 1 a 10) che offrono, secondo l'Autore, temi più spirituali e si occupano dell'uomo interiore, né nella seconda parte ( i libri da 11 a 17) che completa la prima. Invece nella terza parte che sembra essere un'aggiunta alle Istituzioni e alle prime due parti delle Conferenze, i versetti di 2 Ts 3, 9-10 e il tema del lavoro ritornano tre volte[134]. Insomma, riguardo al tema del lavoro e all'uso delle due lettere ai Tessalonicesi, abbiamo a che fare con un grande commento nel decimo libro delle Istituzioni e con cinque brani dispersi negli altri posti.
b) Il libro decimo delle Istituzioni
Si deve sottolineare che un passo del libro decimo delle Istituzioni è, dal punto di vista letterale, unico nelle opere monastiche di Cassiano. Come in nessun altro luogo, l'Autore offre al lettore un vero e lungo "commento", arricchiendolo con tanti giochi retorici che rendono piacevole anche la lettura assai lunga. Il commentatore stesso rivela la sua arte letteraria.
Il brano qui considerato si trova fra una descrizione assai figurativa, psicologica e umoristica dell'accidia (i capitoli da 1 a 6) e le quattro narrazioni o esempi che toccano il tema della vita dei monaci aggiungendovi un po' di colore (i capitoli da 22 a 25). Tutto il resto è occupato dal "commento" che possiede una struttura chiara. Essa è stata fissata dai versetti della Scrittura presi in considerazione. Cassiano commenta 1 Ts 4, 9-12[135]. Segue un commento a 2 Ts 3, 6-14[136], interrotto da un riferimento a 2 Cor 10, 2 e 8 (i brani sono considerati come se fossero scritti ai Tessalonicesi[137]). In seguito appaiono, come una conferma, i riferimenti a At 20, 33-35[138]. L'Autore finisce usando anche 1 Cor 1, 5, Pr 25, 21, Rm 13, 14, 1 Ts 5, 8, Iz 52, 1, Giov 6, 27 e 34, Pr 31, 25, 15, 19 e 13, 4[139] con i versetti di Paolo, già considerati, da 1 Ts 4, 11-12 e da 2 Ts 3, 6[140]. Tutto l'insieme sembra essere composto bene, secondo il filo rosso fissato dai due capitoli delle due lettere ai Tessalonicesi.
I versetti di Paolo sono stati legati l'uno con l'altro in modo molto artificioso. Per esempio, un argomento per iniziare tutto il discorso su Paolo proviene dal "fatto" che - secondo Cassiano - l'Apostolo, in seguito ad un'ispirazione dello Spirito Santo, ha previsto le future malizie dei monaci o ha osservato la diffusione del vizio dell'accidia già presente nella sua epoca[141]. Dopo si deve sottolineare tutto il paragone, molto raffinato, fra Paolo e un medico che conosce bene il paziente; e fra la malatia e il modo di sanare[142] che viene strettamente legato con l'immagine di un insegnante prudente ma anche esigente[143]. Il paragone ritorna come l'eco e sta sempre presente dietro il testo, ispirando l'immaginazione del lettore durante la lettura. Sono presenti anche le domande retoriche che vogliono mettere in rilievo la psicologia di Paolo[144] e i frammenti nei quali Giovanni Cassiano si medesima in Paolo facendo propria la sua posizione, i suoi sentimenti, i suoi problemi e pensieri[145]. Non mancano certamente cose esagerate, ma finalmente tutto è molto armonioso e usato per lo scopo principale: il problema del lavoro. Voglio però lasciare cadere un'analisi soltanto letterale, che sicuramente sarebbe interessante e fruttuosa, e cercare soprattutto la risposta alle domande: "Quale realtà stava dietro queste pagine? Perché tutta questa retorica?" Sembra che gli altri tre testi di Cassiano, legati con i capitoli dalle lettere ai Tessalonicesi di san Paolo qui considerati, possono offrire qualche risposta.
La prima è legata a 1 Ts 4, 9-12. Cassiano, elabora una introduzione commentando i versetti 9 e 10 della lettera che dicono: "Per quanto riguarda la carità fraterna non avete bisogno che io ve lo scriva, perché avete imparato da Dio stesso ad amarvi gli uni gli altri. E' appunto quello che fate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia". Con questa citazione, l'Autore delle Istituzioni vuole dire che in questa comunità tutto andava bene, però vi erano anche alcune mancanze che Paolo voleva correggere prudentemente[146]. In seguito Cassiano elenca - come se lo avesse fatto l'Apostolo - cinque mancanze, dividendo gli altri due versetti della lettera in cinque parti e mettendo sotto ciascuna un "commento" parenetico. Il testo di Cassiano segue precisamente l'ordine completo del testo paolino.
E così la frase scritturistica: "cercate con ogni premura di vivere nella pace" (1 Ts 4,11), viene commentata da Cassiano nel senso che si deve restare nella propria cella e non recare ad altri le proprie inquietudini o pronunziare maledizioni "che sogliono essere provocate dalle bramosie arbitrarie e insodisfatte di quanti vivono nell'ozio"[147].
La frase: "occupatevi ciascuno dei vostri affari" (1 Ts 4, 11), viene commentata da Cassiano: "non cercate di indagare, con la vostra curiosità, la vita del mondo; se andrete a spiare gli usi e i costumi di quelli che conducono una vita diversa della vostra, non vi occuperete della vostra correzione e dall'acquisto delle virtù; ma piuttosto della denigrazione dei vostri fratelli"[148].
Si vede il problema contro cui doveva combattere Cassiano scrivendo ai monaci della Provenza: non volevano restare nelle loro celle e lavorare. Invece andavano in giro, anche fuori del monastero, parlando o chiacchierando di cose mondane e portando fuori i problemi della comunità.
In seguito Cassiano inserisce la frase paolina: "lavorate con le vostre mani, come vi abbiamo prescritto" (1 Ts 4, 11), sottolineando ancora una volta che nell'uomo che non lavora con le proprie mani nasce l'inquietudine che si esprime nei modi già sottolineati[149]. Ora con la frase paolina "comportatevi onestamente verso coloro che sono fuori" (1 Ts 4, 12) viene aggiunto un elemento nuovo: lo scandalo o la mancanza di rispetto e di dignità agli occhi degli altri. L'Autore dice: "Non riuscirebbe mai a comportarsi esemplarmente, nemmeno con quelli che vivono nel mondo (saeculi homines), uno che non fosse contento di restare dentro le pareti della propria cella (claustris cellae) e non attendesse al lavoro delle proprie mani"[150]. Cassiano aggiunge una descrizione figurativa e satirica dell'uomo che così si comporta[151].
Il commento alla frase paolina: "non desiderate le cose di nessuno" (1 Ts 4, 12), sottolinea, secondo Cassiano, ancora la necessità del lavoro senza il quale non c'è pace. L'Autore si rivolge alla virtù della povertà. Dice che ci si deve accontentare di procurarsi soltanto il vitto necessario per ogni giorno[152]. Si vede che, fra i monaci a cui si rivolgeva Cassiano, il lavoro portava problemi abbastanza grandi e da qui nascevano forse i conflitti con la gente esterna. Gli altri testi legati con i capitoli di 1 e 2 Ts offrono qualche risposta e permettono anche di scoprire le cause di questo stato.
Cassiano passa a 2 Ts 3, 6-15 e la commenta versetto dopo versetto in modo tale che al centro pone la persona dell'Apostolo, il suo esempio e il suo insegnamento. L'Apostolo, secondo lui, come predicatore del Vangelo poteva, riferendosi alla frase di Mt 10, 10 "L'operaio ha diritto al suo nutrimento", non lavorare ed essere a carico dei Tessalonicesi[153]. Cassiano domanda: "Mentre dunque quel predicatore del Vangelo, anche nel pieno svolgimento di una missione così sublime e così spirituale, non presumeva di poter pretendere per sé il nutrimento gratuito, pur potendosi valere del suggerimento del Signore, che cosa potremo fare noi, ai quali non solo non è stato affidato alcun incarico di predicazione, ma neppure alcun impegno al di fuori della sola cura dell'anima nostra? Con quale fiducia oseremo, con le mani inerti, mangiare quel pane...?"[154]. Le parole sono forti e dicono che la vita dei monaci, riguardo quella dei Apostoli, non è necessariamente la più perfetta. Ma lasciamo il problema da parte e ritorniamo al "commento".
Cassiano sottolinea ancora gli altri aspetti legati al lavoro di Paolo e tocca i problemi dei monaci. Commenta le parole: "noi non abbiamo nemmeno mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma notte e giorno, con fatica e con pena, lavorammo per non essere a carico di alcuno di voi" ( 2 Ts 3, 8) sottolinea due fatti. Paolo non aveva nessun'altra fonte per sostenersi che il suo lavoro. Non lavorava fisicamente per piacere o per avere un po' di movimento fisico ma perché aveva bisogno, per sé e per i suoi compagni (Silvano e Timoteo), di lavoro per guadagnare il cibo[155].
D'altra parte Cassiano a questa sua opinione ne contrappone un'altra. Sulla base del versetto seguente di Paolo: "non perché non ne avessimo il diritto, ma per offrirvi in noi stessi un esempio da imitare" (1 Ts 3, 9), dice che l'Apostolo lavorava così instancabilmente per dare ai Tessalonicesi un esempio virtuoso affinché potessero seguirlo[156]. Poi commenta i versetti seguenti (1 Ts 3, 10-15) e sottolinea che l'uomo senza lavoro cade in tutti i vizi. Il lavoro invece spinge alla vita virtuosa. Si domanda, dunque, che cosa e come si deve fare con un fratello pigro[157]. Ma più importante per il nostro scopo sembra il frammento seguente dove, sulla base di Ef 4, 28 e di At 20, 33-35, si sottolinea che l'Apostolo aveva una cura speciale per gli altri, anche se egli solo era povero. Il suo atteggiamento si esprimeva nella sua posizione e nell'insegnamento[158].
Si può allora dire che sulla base della persona di Paolo, Giovanni Cassiano voleva sottolineare ai monaci a lui contemporanei ancora i tre aspetti del lavoro: (1) si dovrebbe lavorare anche se ci fossero altre fonti per vivere; (2) il lavoro fisico non è soltanto per il riposo; (3) si deve fare l'elemosina ai più bisognosi anche se si ha poco[159]. Ma il problema diventa ancora più chiaro se si aprono le Conferenze, dove tutti i brani si riferiscono a 2 Ts 3, 8.
c) Le Conferenze e il contesto sociale
Nella conferenza diciottesima sulle tre specie dei monaci, Cassiano presenta l'abate Piamo in Diolcos. Egli da parte sua si riferisce alla storia legata all'abate Serapione. Il contesto è significativo. L'Autore parla prima degli eremiti, cenobiti e sarabaiti. Poi presenta la quarta specie, cioè quelli che hanno lasciato il cenobio e vivono "come" eremiti pensando che sia una dimensione più elevata[160]. L'abate Piamo spiega quale è la differenza fra cenobio e monastero e immediatamente dopo questa risposta viene introdotta una storia legata all'abate Serapione la quale segna una parentesi nel discorso[161]. Dopo viene considerato un altro problema: quello della pazienza[162]. Si trattava dunque, nel discorso dell'abate Piamo, prima di un fatto della vita di Serapione che riguarda la venuta di un monaco che con il suo vestito, con le sue parole e con il suo comportamento sottolinea la sua cosiddetta "umiltà"[163]. Ma dopo il pasto l'abate Serapione inizia un altro discorso, spirituale, riferendosi a quest'uomo e ammonendolo.
Fino al questo momento la narrazione di Cassiano corrisponde a quella delle Apophtegmata[164]. L'ammonimento di Serapione a partire da questa raccolta dei detti dice: "Figlio, se vuoi avere giovamento per la tua vita spirituale, persevera nella tua cella, bada a te stesso e al tuo lavoro manuale. Perché l'uscire non ti porta altrettanta utilità quanta il rimanere in cella"[165]. Cassiano invece mette nella bocca di questo Padre una frase più lunga: "Sei giovane e robusto (...) non andare a zonzo senza far nulla; scattante in cella, come vuole la regola degli Anziani, e guadagnati la vita col tuo lavoro, invece di farti mantenere dal lavoro e dalla generosità degli altri"[166]. E aggiunge una frase riferendosi a Paolo: "Fu questo il rimprovero temuto dall'apostolo Paolo. Pur avendo diritto al sostentamento da parte dei fedeli, perché era operaio del Vangelo, vuole l'Apostolo lavorare giorno e notte per procurare il pane quotidiano a sé e a coloro che, impegnati a lavorare con lui, non avevano la possibilità di dedicarsi a qualche altro lavoro (cf. 2 Ts 3, 8; At 20, 34)"[167].
Si vede che ambedue i testi sottolineano la necessità di restare nella cella, invece di girare senza motivo. Potevano essere dette contro i girovaghi o contro i monaci non stabili che troppo spesso lasciavano le loro celle. Ma il contesto dell'apophthegma si concentra sull'umiltà e sull'efficacia spirituale. Il problema del lavoro è stato messo accanto nella piccola frase: "bada a te steso e al tuo lavoro manuale". Invece Cassiano lascia cadere la frase "bada te stesso" e sviluppa il problema del guadagnare la vita con il lavoro, per contrapporsi al fatto di essere mantenuto dal lavoro degli altri o dalla loro generosità. Da questo si vede come, per Cassiano, era importante il problema del lavoro e quale ruolo nella sua argomentazione giocava san Paolo. Qui anche appare il problema che sembra essere cruciale. Esso non era legato ai sarabaiti, ma piuttosto ai propri monaci. Essi erano probabilmente abbastanza ricchi e non avevano bisogno di lavorare con le proprie mani. Poiché non potevano sempre meditare nelle celle, giravano fuori. Un altro esempio dalle Conferenze chiarisce ancora di più questo aspetto.
Nell'ultima conferenza, Germano pone il problema: "Mi pare però che non sarebbe un ostacolo al nostro proposito l'ipotesi di attendere unicamente alla lettura e alla preghiera, dopo essere stati liberati dalle preoccupazioni del cibo per intervento dei nostri familiari. Il lavoro che qui esercitiamo è per noi una distrazione; se fosse soppresso, potremmo dedicarci con più intensità ai soli esercizi spirituali"[168]. L'abate Abramo risponde utilizzando le parole di Antonio che fra gli altri argomenti si riferiva a At 20, 34 e di 2 Ts 3, 7-9. Diceva: "Anch'io avrei potuto usufruire dell'assistenza dei miei genitori, ma ho preferito a tutte le ricchezze questa nudità in cui mi vedi. Invece di appoggiarmi sull'assistenza dei miei genitori ho preferito guadagnare il cibo quotidiano per il corpo, col sudore della mia fronte"[169].
Sembra essere chiaro il problema e la didattica che praticava Cassiano. I monaci, ai quali si riferiva, erano ricchi e possedevano propri benefici. Non avevano bisogno di lavorare. Di qui nasceva il problema sul livello della vita comunitaria e sul livello spirituale. D'altra parte, non erano capaci o pronti a dare elemosine. Tutto questo, sulla base delle informazioni che abbiamo sul monachesimo della Provenza, che accoglieva nella sua prima fase soprattutto i nobili delle famiglie romane[170], sembra possibile. E in questo contesto Cassiano, con i testi di san Paolo alla mano e come erede della tradizione egiziana, appare non soltanto come un fondatore o codificatore ma come il riformatore o, meglio, l'insegnante.
d) Il messalianismo[171]
Però un contesto sociale non esaurisce totalmente il tema del lavoro preso insieme con i testi paolini nelle opere di questo monaco. Egli scriveva le sue opere tenendo conto delle controversie con il messalianismo[172]. Fra i punti legati a questo movimento e al nostro tema sono da notare al primo posto i seguenti: i messaliani rifiutavano il lavoro[173] e non si preoccupavano dei poveri[174]; non amavano Paolo e frequentemente gli contrapponevano i Vangeli[175]; Cassiano ha potuto incontrare questa corrente o ad Antiochia[176] o a Costantinopoli[177]. Conosceva probabilmente anche i loro scritti[178]. Con una grande probabilità, si suppone che dovesse affrontare queste tendenze anche in Provenza, polemizzando con loro nei suoi scritti monastici[179]. Il tema, certamente, potrebbe essere elaborato pienamente in un altro lavoro, ma già qui e nella prospettiva qui proposta (anche se necessariamente limitata) sono da notare delle cose importanti.
Si capisce meglio perché, in tutti i frammenti appena presentati, Giovanni Cassiano, in confronto con le sue fonti, usa con forza i testi paolini. E' da capire subito anche perché nel libro dedicato all'accidia si trova il così grande commento basato sulle due lettere ai Tessalonicesi. Si capisce perché alcuni brani evangelici vengono citati o proprio commentati con i testi paolini[180]. Infine anche si capiscono le domande di Germano sulla possibilità di ricevere un guadagno dagli altri per dedicarsi totalmente alla preghiera. Essa sembra essere usata proprio in questo contesto polemico[181].
Voglio mostrare alla fine che la soluzione non era così facile anche dagli altri punti di vista. Cassiano - attraverso le parole dell'abate Abramo le quali citavano l'abate Antonio - dice, nel contesto già analizzato, che vorrebbe forse praticare con piacere una meditazione senza sosta sulla Scrittura se non ci fosse dato come migliore l'esempio degli Apostoli e degli Anziani[182]. E in un altro luogo, riferendosi a 2 Ts 3, 8 e all'esempio di Paolo dice:
"Perfino l'apostolo Paolo, che sorpassò coi suoi dolori le fatiche di tutti i santi, poté giungere a tanta perfezione (cioè possedere immutabilmente il sommo Bene - nota MB). Dico ciò senza timore di esagerare, perché lo stesso Apostolo fa questa protesta dinanzi ai suoi discepoli, nei libro degli Atti: 'Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani' (At 20, 34). Scrivendo ai Tessalonicesi afferma di aver 'lavorato notte e giorno con fatica e pena' (2 Ts 3, 8). E' vero che da questa condotta gli derivarono tesori di meriti; l'anima sua però - anche se sublime santità - non poteva fare a meno di essere qualche volta separata dalla celeste 'teoria', a causa delle occupazioni terrestri. L'Apostolo riconosce da un lato i frutti preziosissimi che ottiene dalla vita attiva; dall'altro considera in cuor suo il bene della contemplazione[183].
In questo caso Cassiano si presenta come uno che desiderava contemplare o pregare senza sosta, ma i comandamenti e l'insegnamento di Paolo e dei monaci egiziani lo spingevano a un'altra visione. Qui abbiamo a che fare con una tensione fra il messalianismo e l'ortodossia o ancora più profondamente fra il desiderio della contemplazione e lo scandalo della croce. La teologia della vita monastica di Cassiano stava proprio nel punto cruciale di questa tensione che da una parte esprimeva lo spirito umano permanente, dall'altra si collocava in una realtà storica e concreta (i ricchi monaci o il messalianismo). E in questa situazione l'Autore combatteva contro il suo ambiente o forse anche contro i suoi propri desideri. Con l'aiuto della Scrittura, o proprio con san Paolo, cercava di darne una soluzione equilibrata.
1 COR 13 E L'UTILIZZAZIONE CHE NE FA CASSIANO
Ora vogliamo fermarci più attentamente sul capitolo tredicesimo di 1 Cor, per vedere come e perché l'Autore delle Conferenze lo usa. La causa propria per la scelta di questo brano di san Paolo consiste soprattutto nel fatto che 1 Cor è la lettera più usata da Cassiano. L'uso del capitolo tredicesimo di questa lettera, abbastanza piccolo in sé e denso di significato, è abbastanza diffuso in Cassiano. Sembra anche che, oltre alle osservazioni statistiche, si possa - con uno studio più attento - riscoprire la sua importanza all'interno del suo "corpus monasticum" e penetrare ancor più nel suo pensiero.
a) Le osservazioni esterne
Prima di tutto si devono notare i dati esterni che hanno la loro importanza. Le citazioni esplicite da 1 Cor 13 non sono presenti, né nelle Istituzioni, né nella terza parte delle Conferenze[184]. Nelle due altre parti delle Conferenze, il capitolo è citato in: 1, 3, 7, 8, 11, 15, 16 e 17. Il più ricco di citazioni è il libro undicesimo, nel quale ci sono cinque brani integri nei quali si trovano i riferimenti a 1 Cor 13, 1-3.5.7-8.13[185]. Segue il libro primo che nelle sue due parti tratta di 1 Cor 13, 3-5.8[186] e il libro terzo con commento a 1 Cor 13, 3-5.7[187]. I versetti 1-4 e 8 appaiono ancora due volte, ma in modo marginale, nella conferenza quindicesima[188] e i versetti 5 e 7 nella conferenza seguente[189]. Una volta l'inclusione appare ai versetti 4 e 7 nella conferenza settima[190], al versetto 8 nella conferenza seguente[191], e al versetto 5 nella conferenza diciassettesima[192]. Insomma, nelle opere di Cassiano, ci sono quindici brani, collocati negli otto libri delle prime due parti delle Conferenze, si trovano le citazioni esplicite da 1 Cor 13, 1-5, 7-8, 13.
Si suppone, che i dodici libri delle Istituzioni si occupino delle cose esterne e introduttive dal punto di vista pratico della vita monastica. La terza parte delle Conferenze, invece, è una aggiunta o una conseguenza delle prime due[193]. Si vede anche che 1 Cor 13 appare nella parte più importante dal punto di vista dottrinale, dalla quale dipendono tutte le altre parti dell'opera. Si nota ancora che la maggior parte dei testi legati a 1 Cor 13 si trova nella prima e nella terza conferenza. Esse sembrano essere completate dalla conferenza undicesima[194]. Si può dire allora che ci si imbatte nel tema della carità, fondato sui testi paolini, nel nucleo della teologia della vita monastica di Cassiano. Ma prima di approfondire questo tema in maniera più sviluppata, facciamo qualche osservazione sul testo stesso di 1 Cor 13 usato qui da Cassiano.
Dei tredici versetti di 1 Cor 13, nelle opere di Cassiano ne sono citati soltanto otto in modo esplicito. Si nota una mancanza assoluta dei versetti 6 e 9-12. Questi otto versetti (1-5. 7-8. 13), nei frammenti delle opere di Cassiano appena presentati, ritornano trenta volte in vari modi. Il versetto ottavo - sette volte; il versetto terzo - sei volte; il versetto quinto - cinque volte; il versetto settimo - quattro volte; il versetto quarto - tre volte; i versetti primo e secondo due volte; e il versetto tredicesimo - una volta.
Dal punto di vista testuale sembra che Cassiano possedesse una versione simile a quella della Volgata. Però ci sono da notare alcune osservazioni per i rispettivi versetti. Il versetto primo: "Si linguis hominum loquar, et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum uelut aes sonans, aut cymbalum tinniens" non è mai presente in forma completa. Appare due volte[195] ed è sempre legato ai versetti 2 e 3 dello stesso capitolo.
La stessa cosa vale per il versetto secondo: "Et si habuero prophetiam, et nouerim mysteria omnia, et omnem scientiam: et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam, charitatem autem non habuero, nihil sum". Esso viene citato di seguito con il versetto precedente per due volte. La prima omette le ultime due frasi a causa di una simile espressione alla fine del versetto terzo e la seconda cambia le parole e l'ordine di successione[196].
Il versetto terzo: "Et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas, et si tradidero corpus meum ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil mihi prodest" viene citato quasi "ad litteram" tre volte (manca soltanto "si" prima di "traduero")[197], parzialmente due volte come "eco" della citazione appena usata e senza cambiamenti verbali[198]. Una volta ancora nel modo totalmente mutato, ma fedele riguardo al senso di tutta la frase[199].
Il versetto quarto: "Charitas patiens est, benigna est: Charitas non aemulatur, non agit perperam, non inflatur" è citato una volta parzialmente in un frammento con l'inizio cambiato[200]. Una volta ancora, invece di dire "patiens est", Cassiano dice "omnia patitur"[201], ma il riferimento è chiaro a causa del contesto nel quale viene usato. E una volta è mescolato ai versetti 5 e 6, con un ordine diverso[202].
Il versetto quinto: "non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum" non è mai citato completamente. Per due volte appare in modo abbreviato, con una risonanza e l'ordine delle parole che seguono è mescolato insieme con il versetto quarto[203]. Soltanto la frase "non quaerit quae sua sunt" viene citata due volte[204]. Una volta appaiono alcune parole del quinto versetto insieme con altre espressioni tratte dai versetti 4 e 7 di 1 Cor 13[205].
Dal versetto settimo: "omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet" vengono citate in vari contesti soltanto due espressioni: "omnia suffert, omnia sustinet"[206].
Al versetto ottavo: "Charitas numquam excidit: siue prophetiae evacuabuntur, siue linguae cessabunt, siue scientia destruetur", Cassiano si riferisce più frequentemente. Lo cita una volta completamente anche se cambia l'ordine a causa della spiegazione che ne dà[207]. Due volte appare l'espressione "numquam excidit"[208], la quale in seguito viene cambiata tre volte. Accanto alle espressioni presentate sopra, negli stessi libri si trovano altre: "caritas quae nescit cadere"[209], "caritas numquid cadit"[210], "caritas quae numquid cadit"[211] che sono rese possibili dal testo greco ("he agape oudepote piptei"). Cassiano le usa quando meglio corrispondono ai suoi bisogni. Notiamo che a questa frase e alla frase del versetto tredicesimo ("nunc manet...charitas") si legano anche due espressioni usate dal nostro Autore: "caritas uero perpetuo permansura"[212] e "caritas...inmobilis permanseret"[213].
Il versetto tredicesimo: "Nunc autem manet, fides, spes, charitas: tria haec, maior autem horum est charitas", è citato in frammento e soltanto una volta[214].
In conclusione di queste osservazioni, si può dire, supponendo che il testo da noi posseduto oggi sia stato edito criticamente e che non porti tante interpolazioni degli scribi e che sia corrispondente all'originale, che Cassiano nel caso di 1 Cor 13 non curava tanto il suono verbale del testo. Si può anche dire con certezza che citava questo capitolo a memoria.
b) I testi secondari
Parlando dei testi secondari si pensa ai setti brani dalle conferenze 7, 8, 15, 16 e 17, dove si osserva l'uso di 1 Cor 13 da parte di Cassiano. Con la parola "secondari" si vuole dire che il testo paolino considerato appare soltanto come un'allusione. Nonostante questo si possono mettere in rilievo alcune caratteristiche.
Nella prima parte della settima conferenza Cassiano considera il problema dell'instabilità dei pensieri e dell'anima. Per sostenere l'argomento della lotta contro questa debolezza, si serve dell'immagine del centurione presente in Mt 8, 5-13. Di qui costruisce una catena di citazioni bibliche. Passa in seguito a Mosè che ha stabilito i centurioni per il popolo di Dio (Es 18,21) e dopo ai testi dell'Apostolo legati con il tema del combattimento spirituale (1 Cor 10,4-6)[215]. Termina sulla base di Ef 6, 16-17 e della 1 Ts 5, 8, con una considerazione sulle tre virtù teologali: la fede, la carità e la speranza. Qui appare l'allusione a 1 Cor 13, 4 e 7, come un testo complementare a 1 Ts 5, 8 che parla del bisogno di rivestire l'abito della fede e della carità[216]. La carità che copre tutto, è paziente e sopporta tutto, serve nel combattimento contro le passioni e le tentazioni del diavolo. Si nota che il brano paolino è stato usato marginalmente e in modo retorico. Non si può dire niente di più.
Al termine della conferenza ottava l'Autore formula una preghiera nella quale Abba Serenus domanda il dono del forte timore di Dio e della carità. Essa è stabile e non viene a cadere (1 Cor 13, 8) e nel combattimento spirituale appare come un mezzo indispensabile[217]. Questi due passi, benché si riferiscano a 1 Cor 13 molto marginalmente, offrono un accenno importante. Il nucleo del combattimento spirituale, infatti, è strettamente legato alla carità. Questo è chiaro perché, secondo Giovanni Cassiano, la carità si lega alla purezza del cuore. Il sistema ascetico dell'Autore è logico e coerente e sembra basato sui testi biblici paolini fra i quali un'importanza privilegiata e fondamentale appartiene a 1 Cor 13.
Nella conferenza quindicesima il capitolo tredicesimo di 1 Cor non viene mai citato in modo esplicito. Però le tre allusioni ai versetti 1-4 e 8[218], considerati nel contesto e nella struttura di tutta la conferenza, ci permettono di dire che sono collocati proprio nel centro della spiegazione di Cassiano.
L'argomento della conferenza è semplice. Secondo l'Autore i miracoli possono essere fatti da tutti gli uomini: dai santi e dai peccatori. Si può fare i miracoli e non essere salvato. Cristo insegnava a imitare la sua umiltà e la sua carità e non i suoi miracoli. Vale di più, infatti, cacciare i vizi dal proprio cuore che i demoni dalle anime degli altri, etc. Importa, dunque, la purezza del cuore, la perfezione nella scienza attuale o pratica, cioè la carità. Cassiano dice: "Questa è la scienza pratica che l'Apostolo chiama anche carità e c'insegna a preferirla - con l'autorità della sua parola - alle lingue degli uomini e degli angeli, alla fede che trasporta le montagne, ad ogni scienza e profezia, all'abbandono di tutti i beni, e finalmente anche alla gloria del martirio (cf. 1 Cor 13, 1-3)"[219]. Qualche riga dopo ancora ripete: "Ciò dimostra che il culmine della perfezione e della beatitudine non consiste nell'operare miracoli, ma nella purezza della carità. E c'è una ragione evidente. I miracoli sono destinati a cessare, mentre la carità non finirà mai (cf. 1 Cor 13, 8)"[220].
In questa frase si trova il nucleo di tutta la teologia dei carismi di Cassiano che è radicata ovviamente in san Paolo. Si potrebbe anche pensare che nella conferenza diciassettesima il testo paolino qui considerato potrebbe avere un ruolo più importante. Invece il ruolo primario è sostenuto dagli altri versetti della Scrittura (i Salmi, il vangelo di Giovanni, il Cantico). 1 Cor 13, 5 e 7 viene citata soltanto marginalmente nei passi nei quali l'Autore considera il problema dell'ira. Cassiano parla in modo figurativo degli uomini che pur essendo calmi esteriormente, nei contatti con gli altri o dentro di sé, sono pieni di ira. Essi parlano tranquillamente ma fanno nascere l'ira nei cuori degli altri e in questo modo sono lontani dalla carità dell'Apostolo "quae non quaerit quae sua sunt" (1 Cor 13, 5)[221]. Un po' più avanti, pur considerando il tema dell'ira, Cassiano costruisce un'immagine, dove si mescolano Rm 12, 19 e 1 Cor 13, 7 con la descrizione di un porto nel quale i fortunali del mare possono essere calmati. La carità che "omnia suffert, omnia sustinet" è proprio questo porto che calma ogni ira dentro di sé. L'uso di 1 Cor 13 in questa conferenza è soprattutto retorico e serve per legare l'amore alla pazienza e alla purezza del cuore.
Infine si deve notare la frase "caritas quae non quaerit quae sua sunt" (1 Cor 13, 5) usata nella conferenza diciassettesima. Cassiano parla della menzogna. Questa è in se stessa una cosa cattiva ma in alcuni casi, secondo l'Autore, tanti hanno deciso di usarla. La citazione di 1 Cor 13 appare nel contesto della spiegazione di Cassiano che cerca di rispondere alla domanda: come si può compiere questo brano dell'Apostolo se qualcuno cerca soltanto il proprio bene? Senza entrare in questa problematica morale, notiamo che 1 Cor 13, 5 è qui chiaramente inserita in tutto il sistema di Cassiano e serve soltanto come una affermazione retorica dell'argomento. Si nota anche che viene usata con altre tre citazioni di san Paolo, basandosi su alcune ripetizioni che aiutavano a legare i vari testi[222] - una "struttura" alquanto frequente per il nostro Autore.
c) I testi centrali
Parlando dei "testi centrali" si vogliono dire due cose. Prima di tutto vi sono testi fondamentali, testi di base, in Cassiano. Poi si deve dire che proprio in questi testi il capitolo tredicesimo di 1 Cor ha un ruolo importante o centrale. Infatti abbiamo a che fare con gli otto brani che provengono dalla conferenza prima, terza e undicesima. In essi si nota già ad un primo sguardo una forte presenza e un forte influsso dei versetti 1-5 e 7-8 del qui considerato capitolo paolino.
Soprattutto è da notare che nella conferenza undicesima che a mio parere è complementare alla prima conferenza[223], sino a quattro volte ritorna in modo diretto il versetto ottavo di 1 Cor 13! E su questo fatto si deve ora fare qualche osservazione.
L'Autore parla di due grandi temi. Il primo tratta delle tappe della vita spirituale nelle quali le pietre migliari sono costituite dalla fede o dal timore di Dio, dalla speranza e finalmente dalla carità (i capitoli 1-10). Il secondo spiega le differenze fra il timore e la carità (i capitoli 11-15). I diversi studiosi, vedendo l'importanza di questa conferenza in tutto il sistema di Cassiano, tentavano di trovare e indicare le sue fonti. E così Bossuet sottolineava l'influsso degli Stromata di Clemente d'Alessandria[224]. Con questa ipotesi polemizzava M. Olphe-Galliard contrapponendo l'ispirazione che potrebbe provenire da Ireneo e da Basilio[225]. Invece da parte sua e in prospettiva della sua opera, S. Marsili indicava che queste pagine di Cassiano hanno le loro radici in Origene e in Evagrio Pontico[226]. Però il problema sembra aperto e il nostro lavoro non vuole né risolverlo e neanche trattarlo. Si lascia da parte il problema delle fonti prendendo l'altra prospettiva, cioè quella nella quale appare 1 Cor 13. Rispetto a questa, si tenta di cercare un vero fondamento nella Fonte delle fonti, cioè nella Scrittura. Si nota che la presenza del versetto ottavo di 1 Cor 13 offre questa possibilità a causa della sua mancanza diretta nelle fonti indicate dagli studiosi appena citati.
La prima cosa vista dal lettore più attento, è questa: 1 Cor 13, 8 viene usata da Cassiano due volte nella prima parte della conferenza[227] e due volte nella seconda[228]. La cosa ancora più importanta, però, consiste nel fatto che fra le prime due citazioni e le due seguenti esiste una differenza di traduzione. Infatti, Cassiano nella prima parte usa riguardo alla carità l'espressione "numquam cadit" e nella seconda "numquam excidet" o "numquam excidit". L'espressione greca "oudepote piptei" permette il nascere delle espressioni latine sopra citate anche se si prediligeva la prima. Malgrado ciò, la Volgata (e forse tutta la tradizione latina e scritturistica) preferiva la seconda. A. Gazet nella sua edizione del secolo diciasettesimo (1616), riprodotta nella collana di Migne, osservava che: "cadit et excidit idem ualent, et hic Auctor non semper servat uerba Scripturae"[229]. Sembra però che qui il gioco fra le due parole sia voluto da Cassiano. Cambiando le parole latine, voleva sottolineare i due diversi aspetti.
Nel primo caso Cassiano dice: "Tre cose trattengono l'uomo dall'abbandonarsi al vizio: il timore dell'inferno o di altri castighi minacciati dalle leggi umane; la speranza e il desiderio del regno dei cieli; l'amore del bene in quanto bene, o amore delle virtù. Leggiamo infatti che il timore respinge il contagio del male: 'Il timore di Dio odia il male' (Pr 8, 32). Anche la speranza sbarra la via alle incursioni dei vizi: 'Coloro che sperano in Lui non peccheranno' (Sal 33, 23). L'amore, poi, non teme il danno del peccato, perché 'la carità non viene mai meno' (caritas numquam cadit - 1 Cor 13, 8), essa 'copre moltitudine dei peccati' (1 P 4, 8)"[230].
L'espressione "numquam cadit" che ci interessa sottolinea una dimensione morale. Le tre virtù, la fede o il timore di Dio, la speranza e la carità[231] sono considerate come "i mezzi" che separano dal peccato permettendo di giungere allo stato dal quale non si può cadere nei peccati. Esso è lo stato nel quale estingue la necessità della lotta[232]. Di nuovo, grazie a Paolo, il pensiero entra nello schema già conosciuto nel quale skopos, apatheia, la purezza del cuore e la carità si riuniscono. La carità "che non cade mai" vuole qui esprimere uno stato di perfezione che l'uomo può raggiungere, un ideale ascetico o morale. La carità si colloca a livello del soggetto.
Nel secondo caso Cassiano inizia a parlare della carità, che si distingue dalle due altre virtù teologali trascendendone tutti i carismi. Però lascia un aspetto soggettivo e va verso un argomento oggettivo, o, si potrebbe dire, ontologico, nel quale la carità è più perfetta e più alta di ogni cosa perché è eterna. Dice: "Vedete bene che niente esiste di più prezioso, di più perfetto, di più sublime, di più eterno - se così posso dire - della carità. 'Le profezie termineranno; le lingue cesseranno; la scienza finirà in nulla ( 1 Cor 13, 1-2). La carità non verrà mai meno (Caritas autem numquam excidet; 1 Cor 13, 8)'. Senza carità, i più alti carismi, e lo stesso martirio, non valgono a nulla"[233].
La carità, dunque, che "non avrà mai la fine" è considerata soprattutto qui come un bene immobile[234]. Il termine "excidet" corrisponde alla dimensione del tempo, diversamente che "cadit" che si riferisce maggiormente allo spazio o alla morale. Alla fine si osserva che le due dimensioni si uniscono e l'uomo può arrivare alla preghiera continua, così ricercata dall'Autore, alla perfezione o alla purezza del cuore[235]. Così l'analisi spiega il cambiamento delle parole nella Scrittura che viene usata nella lingua latina e d'altra parte apre gli occhi sulla teologia di Giovanni Cassiano.
Su questa base, si potrebbe dire dogmatica, seguendo successivamente le tracce del capitolo tredicesimo di 1 Cor, si giunge a conseguenze molto pratiche e non meno importanti per la teologia della vita monastica di Cassiano. Esse sono due: una è collocata nel campo d'azione ascetica o della rinuncia, l'altra si estende alla vita della comunità.
La prima si trova soprattutto nella prima conferenza e nella terza. Cassiano si riferisce a 1 Cor 13, 1-5 e 7. Il clima dell'enunciazione si precomprende e si potrebbe riassumerlo dicendo che non basta la rinuncia, se non è rafforzata dalla carità. Usando la lingua evagriana, si potrebbe dire che non basta la continenza ("enkrateia") se non ci sarà la carità ("agape")[236]. L'argomentazione, proprio grazie alle citazioni di san Paolo, permetteva di identificare lo scopo della vita monastica, cioè la purezza del cuore, con la carità. Ora voglio soltanto aggiungere qualche osservazione.
Già ad un primo sguardo ci appare l'aspetto polemico di queste pagine. Cassiano dice per esempio: "...la perfezione non si raggiunge d'un tratto, rinunciando alle ricchezze e disprezzando gli onori, senza prima essersi arricchiti di quelle carità della quale l'Apostolo descrive i molteplici aspetti"[237].
La citazione appare fra i versetti 3 e 4-5 del considerato capitolo di san Paolo. Nella terza conferenza, nel contesto di 1 Cor 13, 3-5, con una certa enfasi Cassiano dice: "San Paolo non vorebbe scritte queste parole se non avesse previsto in spirito che molti, dopo aver distribuito ai poveri le loro ricchezze, sarebbero rimasti impotenti a scalare la vette della perfezione evangelica e della carità"[238].
L'Autore poteva rivolgersi con queste parole ad alcuni concorrenti o ai monaci che potrebbero identificare la sola rinuncia, la sola continenza con il monachesimo cristiano e con la perfezione. Ma più probabilmente abbiamo qui a che fare con un insegnamento parenetico riguardo ai giovani monaci che nel primo fervore hanno lasciato tutte le cose di questo mondo ma non hanno raggiunto l'essenza. Si sono fermati ad livello della rinuncia esteriore, dell'uomo esteriore, senza entrare al livello della rinuncia interiore legato con l'uomo interiore, cioè non hanno liberato i loro cuori dai vizi.
L'Autore lega successivamente Mt 19, 21 con 1 Cor 13, 3-5 e dice: "la rinuncia e il martirio del mio corpo non mi recheranno alcun giovamento. E ciò perché l'uomo interiore rimane ancora schiavo degli antichi vizi. Inutilmente, nel fervore della mia conversione, avrò disprezzato la sostanza di questo mondo (la quale in se stessa non è né buona né cattiva ma indifferente), se poi non mi impegnerò a rigettare le nefaste ricchezze di un cuore vizioso e a praticare la carità"[239].
In seguito cita 1 Cor 13, 4-5 e 7. Una cosa è certa in tutto questo contesto: la presenza di questi brani dell'Apostolo introducevano nelle comunità monastiche o ascetiche un clima di carità o meglio più evangelico, che arricchiva un movimento che sottolineava talvolta troppo la sola rinuncia.
Qui appare la seconda dimensione alla quale conducono i versetti di 1 Cor 13 in Cassiano, cioè la vita comunitaria. Infatti la perfezione interiore viene esercitata nella vita comunitaria e tutte le caratteristiche proposte dall'Apostolo e considerate da Cassiano trovano il loro posto nell'esercizio e nell'esame dell'interno della vita comunitaria e nella relazione fraterna. Notiamo almeno una espressione, là dove Cassiano parla della pazienza del Signore ("dominicae longanimitatis"). Cita ancora a questo riguardo le parole di Gesù: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34); e dice: "E' invece un segno evidente di un'anima non ancora purificata dalla sozzura dei vizi, il fatto che le colpe del prossimo non trovino in essa compassione e misericordia, ma la rigida condanna d'un giudice. Come potrà ottenere la perfezione del cuore colui che manca di quell'elemento nel quale a detta dell'Apostolo, sta la perfezione di tutta la legge? 'Portate - dice Paolo - i pesi degli altri, così adempirete la legge di Cristo' (Gal 6, 2). Chi non possiede la virtù della carità che 'non si irrita, non s'inorgolisce, non pensa male, soffre tutto, sopporta tutto' ( 1 Cor 13, 4-7), come potrà essere perfetto?"[240]. Per avere una visione più ampia si dovrebbe leggere sotto questa luce la conferenza diciassettesima sull'amicizia, dove però non si trova 1 Cor 13.
Sembra che questa sia la prospettiva nella quale si dovrebbe leggere tutto Cassiano. La prima conferenza, la terza e l'undicesima stanno alla base di tutte le considerazioni seguenti o, come dice l'Autore stesso, "secondarie" delle Istituzioni e delle Conferenze. Qui viene proposta soltanto un'analisi dal punto di vista di un capitolo paolino che ci permette almeno anche di dire che lo scopo, l'intenzione di Giovanni Cassiano era andare al di là del problematicità del cenobio o dell'eremo o degli altri problemi, spesso presi tropo seriamente dai monaci. Alla fine ripetiamo, dunque, una frase che sembra importante e caratteristica: "Bisogna dunque esercitare le virtù secondarie - digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre Scritture - in subordinazione alla virtù principale, che è purezza del cuore o carità"[241].
CONCLUSIONE
Qui lo studio trova il suo termine. Ha anche la sua piccola storia che si osserva nella sua struttura. Lo sviluppo progredisce insieme con le ricerche, cambia e precisa sempre di più il tema, la prospettiva degli studi particolari e lo scopo.
I. Il primo capitolo è stato dedicato al problema generale che considerava l'uso della Bibbia nelle opere di Giovanni Cassiano. Il risultato ha mostrato una forte presenza dei testi di san Paolo. Fra questi prevale la presenza di 1 Cor e di Rm. I versetti delle lettere paoline che ritornano di più ( Ef 6,12; Col 3,5; 1 Ts 5,17; 2 Tm 2,5; 1 Cor 10,13 e 13,8) sottolineano soprattutto l'interesse parenetico-morale dell'Autore.
Le ricerche, su quale testo del corpus paulinum poteva appoggiarsi Giovanni Cassiano, hanno mostrato: (1) che il monaco di Marsiglia stimava abbastanza l'importanza della "lettera" nel testo ispirato per sviluppare dopo una giusta interpretazione; (2) che in certi casi si riferiva alle diverse versioni del testo greco cercando di stabilire il testo giusto; (3) che le versioni latine (la Vetus Latina, la versione della Volgata, le traduzioni di alcuni brani presenti in altre opere teologiche che Cassiano aveva a disposizione) talvolta usavano anche la versione migliore e la correggevano con il testo greco; (4) però, d'altra parte, egli non sempre era tanto pignolo, esigente e conseguente in questo campo; (5) citava spesso il testo a memoria; (6) l'atteggiamento più o meno attento verso il testo scritturistico dipendeva spesso dallo scopo principale per il quale usava nel casi concreti i testi paolini. Le analisi dedicate ad alcuni brani delle lettere dell'Apostolo fatte nel capitolo terzo dello studio, hanno confermato queste opinioni.
II. Nel capitolo secondo lo studio voleva mostrare come Cassiano vedeva Paolo stesso. Qui si cercava di trovare una indicazione che permettesse di stabilire una prospettiva nella quale lo studio successivo si sarebbe potuto sviluppare. Purtroppo i risultati non sono tanto abbondanti. E' stato soltanto stabilito che: (1) Giovanni Cassiano è al di là degli interessi storici, e stima soprattutto la prospettiva parenetico-moralista per la quale san Paolo e le sue lettere erano un soggetto di valori ottimi; (2) l'Apostolo era considerato come l'autorità docente e l'esempio della vita virtuosa; (3) da una parte la persona di Paolo è stata elevata a livello quasi ideale e irraggiungibile; (4) d'altra parte, a causa di alcuni suoi testi, egli stesso è rimasto molto umano e reale, perciò molto vicino alle esperienze di ciascuno; (5) probabilmente a causa di questa tensione fra i due estremi Paolo è diventato un typos e nelle opere monastiche di Cassiano si può osservare un processo di monachenizzazione nel quale san Paolo era, si potrebbe dire, vestito con abito di un monaco.
III. Nel capitolo terzo è stata proposta l'analisi di alcuni testi che volevano mostrare i vari modi di usare i testi dell'Apostolo, da parte di Giovanni Cassiano. E' stata fatta per questo una scelta soggettiva degli aspetti di questo tema che di per sé è molto vasto. Tante cose, legate con l'esegesi dei testi paolini in Cassiano, sono state tralasciate (per esempio il tema del combattimento spirituale, dell'antropologia di Cassiano, della libera volontà, etc.). Le altre sono state appena toccate (soprattutto quelle sulla relazione fra la cultura ellenistica e l'esegesi o sui quattro sensi della Scrittura). Si pensa però che i cinque sottocapitoli possano offrire uno sguardo abbastanza largo e ricco e servire come punto di partenza per le future ricerche.
Nonostante questi limiti e mancanze nello studio qui presentato, si sono fatte alcune scoperte o approfondimenti. Fra quelle che sembrano essere più importante si possono elencare:
1. Lo studio ha messo in rilievo i problemi che si potrebbero chiamare, facendo una comparazione con le moderne ricerche biblico-esegetiche, come storico-critiche. Questo vuole dire che, toccando gli aspetti esegetici dell'Autore, il quale spesso era considerato dal punto di vista spirituale-teologico, si entra fortemente in un campo dove importanti sono non soltanto gli studi sulle fonti (patristico-monastiche, scritturistiche e ellenistiche) delle quali Cassiano si serviva. Importante diventa anche il contesto storico, nel senso molto ampio, nel quale venivano usati.
2. Così lo studio sul modo di interpretare alcuni testi paolini scelti, da Giovanni Cassiano, ha mostrato che l'Autore: (1) era un erede della tradizione ellenistica e dei Padri della Chiesa e dei Padri del Deserto; (2) d'altra parte, utilizzandola, era rimasto indipendente e creativo; questo vuole dire che non soltanto ha trasmesso e trasformato - come si dice spesso - una tradizione orientale e monastica sul terreno occidentale e latino, ma anche l'ha arricchita mostrando la propria originalità; (3) nella sua esegesi o nella sua interpretazione dei testi paolini dipendeva dal suo ambiente; esso si creava in contesto della vita di una comunità monastica con le sue strutture (distacco dal mondo, il modo di organizzare il tempo e il lavoro; l'Ufficio divino, etc.) e con alcuni ideali religiosi; (4) possedeva o creava alcuni schemi dei quali si serviva durante le sue esposizioni (le strutture "aritmetiche"); (5) collocava i testi paolini nel contesto del suo sistema teologico-ascetico; (6) aveva soprattutto scopi parenetici e morali; (7) ma anche talvolta li esponeva in contesto polemico (i messaliani); (8) era un pedagogo.
3. L'analisi dal punto di vista dei particolari versetti paolini ha mostrato che Giovanni Cassiano ha bene ripensato la struttura della sua opera. Alcuni brani scritturistici e i temi con essi legati ci appaiono in posti precisi e con rigore. Sembra, sulla base delle analisi fatte durante lo studio, che nell'intenzione di Cassiano alle Istituzioni corrisponda la prima parte delle Conferenze (i libri da 1 a 10) che altrove è stata completata della parte seconda ( i libri da 11 a 17). La parte terza ed ultima delle Conferenze voleva aggiungere le osservazioni che completavano tutte e tre le parti della sua opera monastica.
4. Sembra anche che sulla base dell'interesse proprio di Cassiano che riguarda i testi paolini, stava un grande interesse verso san Paolo che influiva su tutta la Chiesa dell'epoca. Penso che si possa dire anche di più, cioè: sulla base del movimento monastico dell'antichità già dalle sue origini stava una lettura attenta, profonda ed originale che si faceva soprattutto sull'Apostolo Paolo. Lo studio futuro in questa prospettiva dei testi pacomiani, delle lettere di sant'Antonio, dei testi dei Padri Cappadoci o di Giovanni Crisostomo, etc., potrebbe sviluppare e confermare questa ipotesi.
[1]Cf. S. MARSILI, Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico. Dottrina sulla carità e contemplazione, Roma 1936, p. 38-41; L. CHRISTIANI, Jean Cassien. La spiritualité du Désert, Lyon 1946, p. 11-14.
[2] Cf. C.TIBILETTI, “Giovanni Cassiano. Formazione e dottrina”, in Augustinianum 17 (1977) p. 357-358.
[3] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 40.
[4]Cf. A. KRISTENSEN, "Cassian's Use of Scripture" dal The American Benedictine Review 28 (1977) p. 276-288; vedi anche A. DE VOGÜE, la recensione dell'articolo di Kristensen in Collectanea Cistersiensia 2 (1978) p. (313-315).
[5] Cf. E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen, III, Leipzig 1880, p. 209, nota 3; S. MARSILI, op. cit., p. 38; M. HARL, "Le guetteur et la cible: les deux sens de skopòs dans la langue religieuse des chrétiens", in Revue des études grecques 74 (1961) p. 450-468.
[6] Cf. M. HARL, op. cit., p. 451-452.
[7] S. MARSILI, op. cit., p. 39, nota 1.
[8] CLEMENT D'ALEXANDRIE, Le Pédagoque, I,13,102,2, SCh 70, Paris 1960, p. 292-293: Le devoir est convenable, et de son coté l'obéissance est fondée sur les préceptes. Ceux-ci, identiques aux commandements, ont pour but la vérité (ten aletheian echousai skopon); ils conduisent jusqu'au point extrême du désir, que l'on conçoit comme la fin (telos). Or la fin de la religion, c'est le repos éternel en Dieu, et notre propre fin est le début de l'éternité (telos de estin theosabeìas he aidios anapausis en to theo, tou de aionos estin arche to hemeteron telos); - Les Stromates, II, SCh 38, Paris 1954, p. 136-137: Il admet donc comme but de la foi "la ressemblance à Dieu autant qu'il était possible de devenir saint et juste avec intelligence, et comme fin (de l'homme) la réalisation de la promesse, réalisation qui repose sur foi" (skopon tes pisteos hupotithetai, telos de ten epi te pìstei tes epaggelias apokatastasin); anche nella opera Le Pèdagogue, II,10,83,1, Clemente distingue nel matrimonio fra atto procreativo (skopos) e la possesione dei bambini (telos); vedi anche M. SPANNEUT, Le Stoicisme et les Pères de l'Eglise de Clément de Rome à Clément d'Alexandrie, Paris 1957, p.260.
[9] Cf. M. HARL, op. cit., p. 454.
[10] Cf. M. HARL, op. cit., p. 457-461; dove sono citati molti esempi legati sopratutto con il tema dello skopos.
[11] EVAGRIO PONTICO, Epistula fidei, 7, in BASILIO DI CESAREA, Le Lettere, I, introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione, commento a cura di M.F. Petrucco, Torino 1983, p. 98: "epei kai autos esti to telos epizetonsi kai he eschate makariotes"; - Le Gnostique ou celui qui est devenu digne de la science, 49, SCh 356, p. 191: "skopos tes men praktikes ton noun apokathapizein, kai ton pathon ou dektikon kathistanai"; cf. S. MARSILI, op. cit., p.93.
[12] Cf. M. HARL, op. cit., p. 459.
[13] Giovanni Cassiano, Conlationes, 1,4,3; Conferenze spirituali, trad. Italiana a cura di O. Lari, Roma 1966, p. ...; nelle note seguenti Conferenze spirituali sono citate come Conl., e le pagine della tradizione italiana sono segnati nella parentesi: Conl., 1,4,3 (...).
[14] Cassiano non distingue come Evagrio fra "regnum dei" e "regnum caelorum"; cf. S. MARSILI, op. cit., p. 40.
[15] Conl., 1,5,2.
[16] Cf. Mt 10,22; 17,25; 24,6,13,14; 26,58; Mc 3,26; 13,7, 13; Lc 1,33; 18,5; 21,9; 22,37; Gv 13,1; Rm 6,21,22; 10,4; 13,7; 1 Cor 1,8; 10,11; 15,24; 2 Cor 1,13; 3,13; 11,15; Fil 3,19; 1 Ts 2,16; 1 Tm 1,5; Eb 3,6; 3,14; 6,8,11; 7,3; Gc 5,11; 1 Pt 1,9; 3,8; 4,7,17; Ap 1,8; 2,26; 21,6; 22,13.
[17] Conl., 1,5,2 (...).
[18] ibid.
[19] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 39-40, nota 5.
[20] Interessante è notare che Mario Vittorino usa lo stesso brano di Paolo nel suo commentario alla lettera di San Paolo ai Filipesi 3,13-14; al posto del termine skopos (tradotto da Cassiano con "destinatio") mette la parola "regula" e la lega con l'osservanza dei precetti evangelici: "sequenda secundum regulam disciplinamque praeceptorum a Christo, ut ad bravium supernae vocationis, in Christo tamen Iesu, venire possimus"; cf. MARIO VITTORINO, Commentarii in Epistolas Pauli ad Ephesios, ad Galatas, ad Philippenses, edizione critica con introduzione, traduzione italiana, note e indici a cura di F. Gori, Torino 1981, p. 362.
[21] Si può osservare una interpretazione abbastanza simile del brano Fil 3,13 in altri luoghi nelle opere di Cassiano; cf. Inst., 5,17,2; 11,6,1; Conl., 6,14,1; 20,8,11. Probabilmente provengono dalla Vita di Antonio, 7, 20 e 66.
[22] Esisteva nell'epoca patristica una "regola" esegetica; essa permetteva ad interpretare un testo scritturistico con un'altro; cf. per esempio: M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma 1985, p. 39 e 83, etc.
[23] Cf. Conl., 1,6,2-3 (...).
[24]Conl., 1,7,2 (...).
[25] Cf. Conl., 1,10.15 (...); S. MARSILI, op. cit., specialmente le pagine 65-73.
[26] Cf. Inst., 2,11,3; 3,7,1; 3,8,4; etc.
[27] Cf. Conl., 21,20,1; 21,24-28.
[28] Cf. Inst., 12,14,1; 3,6,1; etc.
[29] Per la numerologia dei Padri si veda per esempio: A. QUACQUARELLI, "Recupero della numerologia per la metodica dell'esegesi patristica", in ASE, 21 (1985), p. 235-249.
[30] Cf. Inst., 5,1,1.
[31] Cf. Conl. Praef., 1,1; 2,1.
[32] Cf. Conl. Praef., 2,1; 3,1.
[33] ibid.
[34] Cf. Conl., 24,1,1.
[35] Cf. Conl., 14,8,2-3.
[36] Cf. Conl., 8,17,1; 13,12,7.
[37] Cf. Inst., 12,2,1; Conl., 5,3-12; etc.
[38] Cf. Conl., 3,4,1; 3,11,1.
[39] Cf. Conl., 3,6,1; 3,6,6.
[40] Cf. Conl., 4,19, 1-2.
[41] Cf. Conl., 1,19,1.
[42] Cf. Conl., 6,3,1.
[43] Cf. Conl., 9,5,2.
[44] Cf. Conl., 10,14,1.
[45] Cf. Conl., 11,6,1-2.
[46] Cf. Conl., 14,8,1.
[47] Cf. Conl., 18,4,2.
[48] Cf. Conl., 9,11,2; 9,15,1; 9,17,1-4.
[49] Cf. Conl., 14,8,4.
[50] Cf. Conl., 14,3,3.
[51] Cf. Conl., 12,7,2.
[52] Cf. Conl., 16,14,3.
[53] Cf. Conl., 18,16,11.
[54] Cf. Conl., 1,13,6; 3,10,1-2.
[55] Cf. Conl., 16,14,2.
[56] Cf.H.I. MARROU, St. Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958, p. 261, 450-451; W.G. MOST, "The Scriptural Basis of St. Augustin's Aritmology", in CBQ, 13 (1951), p. 284-295.
[57] Cf. I. LORETI, "Simbolica dei numeri nella 'Expositio Psalmorum' di Cassiodoro", in VetChr, 16 (1979), p. 41-55.
[58] Cf. Conl., 11,6,1.
[59] Cf. Conl., 4,19,1.
[60] Cf. V. GROSSI, Lineamenti di antropologia patristica, Roma 1983.
[61] Cf. Conl., 4,19,2-7.
[62] Cf. Conl., 5,11,1.
[63] Cf. Conl., 5,11,3.
[64] Cf. Conl., 5,11,4-5.
[65] Cf. Conl., 5,11,6.
[66] Cf. Conl., 5,11,6.
[67] Conl., 5,11,4.
[68] Cf. Conl., 5,11,5.
[69] Conl., 5,11,7.
[70] ibid.
[71] Cf. G.H.LIDDEL e R. SCOTT, Dizionario illustrato greco-italiano, edizione adattata e aggiornata a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, F. di Benedetto, e Monnier-Firenze 1975, p. 602, 830 e 914.
[72] Sir 27, 30: "Anche il rancore e l'ira (menis kai orge) sono unabominio, il peccatore li possiede. 28, 3 : Se qualcuno conserva la collera (orge) verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? 4 : Egli non ha misericordia per l'uomo simile, e osa pregare per i suoi peccati? 5 : Egli, che è soltanto carne, conserva rancore (menin); 9 : Un uomo peccatore semina discordia tra gli amici e tra persone pacifiche diffonde calunnie. 10 : Secondo la materia del fuoco, esso s'infiamma, una rissa divampa secondo la sua violenza; il furore (thumos) di un uomo è proporzionato alla sua forza, la sua ira (orgen) cresce in base alla sua richezza. 18 : Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua. 19 : Beato chi se ne guarda, chi non è esposto al suo furore (thumo)". Il testo italiano è stato citato secondo La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1989 (4 edizione).
[73] Cf. Conl., 9,9,1.
[74] Cf. Conl., 9,17,4.
[75] Cf. Conl., 9,9,1.
[76] ibid.
[77] Cf. Conl., 9,11,1.
[78] Cf. Conl., 9,12,1.
[79] Cf. Conl., 9,13,1.
[80] Cf. Conl., 9,14,1.
[81] Cf. Conl., 9,17,4.
[82]Conl., 9,10,1.
[83] Qui abbiamo a che fare con una regola ermeneutica, ellaborata da Origene, secondo la quale ogni parola della Scrittura ha il suo senso spirituale e "tutta la Scrittura, in ogni parola ha la sua precisa ragion d'essere" ed utile all'interpretazione", M. SIMONETTI, op. cit., p. 79; cf. ORIGENE, Traité des principes, IV,1,7, SCh 268, p. 287-288, con le note in SCh 269, p. 165.
[84] Cf. Conl., 9,15,1.
[85] Conl., 9,17,4.
[86] Cf. Conl., 14,8,1-7.
[87] Cf. H. DE LUBAC, Esegesi Medievale. I quattro sensi della Scrittura, parte prima, volumi primo e secondo, trad. it. di G. Auletta, Milano 1986.
[88] Cf. M. OLPHE-GALLIARD, "La science spirituelle d'après Cassien", in RAM, 18 (1937), p. 141-160.
[89] Cf. Conl., 14,8,1.
[90] Cf. Conl., 14,8,4.
[91] M. SIMONETTI., op. cit., p. 358.
[92] Cf. Conl., 14,8,4.
[93] Cf. Conl., 14,8,5-7.
[94] Conl.,14,8,2.
[95]Conl., 14,8,7.
[96]Conl., 14,8,2.
[97]Conl., 14,8,5.
[98]Conl., 14,8,3.
[99]Conl., 14,8,6.
[100] Il termine già era utilizato da Origene nella sua concezione della Scrittura; lui esigeva di inalzarsi, nell'interpretazione di essa, dal livello sensibile, a questo intelligibile; cf. M. SIMONETTI, op. cit., p. 80.
[101] Cf. Conl., 14,8,3.
[102] Cf. Conl., 14,8,6.
[103] Cf. AA.VV., "Priére", in DSp, XII (2), soprattutto coll. 2247-2271.
[104] Cf. A. VAN DER MENSBRUGGHE, Prayer in Egyptian Monasticism, Berlin, 1955, p. 435-454 (Studia patristica 2); A. de VOGÜE, "'Orationi frequenter incumbere'. Une invitation à la prière continuelle", in RAM, 41 (1965), p. 467-472.
[105] Cf. M. OLPHE-GALLIARD, op. cit., coll., 223-225; 264-266. Si nota sopratutto l'influsso di Origene; cf. S. MARSILI, op. cit., p. 153-156.
[106] Cf. Inst., 2,1,1; 8,13,1; Conl., 9,3,4; 9,6,5; 9,7,3; 10,14,2; 23,5,8.
[107] Cf. Conl. Praef., 1,4; 9,7,4.
[108]Conl., 9,7,4.
[109]Conl., 9,6,4.
[110] Cf. R. TAFT, La liturgia delle ore in Oriente e in Occidente, trad. it. di I. Gargano, Milano 1988, p. 135-152.
[111]Conl., 10,14,2.
[112]Conl., 23,5,9.
[113]Conl., 8,13,1.
[114]Conl., 9,3,4.
[115]Conl., 10,14,2.
[116]Inst., 2,1,1: "Il soldato di Christo, una volta cintosi ai fianchi quel doppio cingolo (...) dovrà ora ben conoscere il criterio proprio delle orazioni canoniche e della recitazione dei Salmi, fissato dai padri fin dai tempi ormai remoti. In altra sede, quando cioè cominceremo ad esporre le "Conferenze" dei padri antichi nella misura che ci sarà conessa dal Signore, parleremo della natura di quelle preghiere e del modo con cui ci è possibile pregare "senza interruzione", secondo l'espressione dell'Apostolo".
[117]Conl.Praef., 5: "Dall'aspetto esteriore e visibile della vita monastica - di cui mi sono occupato in altri libri - passerò ora a trattare la vita interiore e invisibile. Dalla preghiera delle ore canoniche, vengo ora a trattare di quella 'preghiera continua' di cui parla san Paolo".
[118] Inst., 8,13,1.
[119] Inst., 8,13,1; cf. anche Conl., 9,3,4.
[120] Cf. Conl., 10,14,2.
[121] ibid.
[122] Cf. per esempio Conl., 9,7,3; 23,5,9.
[123] ibid.
[124] Cf. Conl., 10,14,2.
[125] Cf. Conl., 9,3,4.
[126] Cf. Conl., 10,14,2.
[127] Cf. Conl., 23,5,9.
[128] Cf. Conl., 9,6,5.
[129] ibid.
[130] ibid.
[131] Cf. Inst., 10,7-19.
[132] Cf. Inst., 1,5,1.
[133] Cf. Inst., 2,3,3.
[134] Cf. Conl., 18,11,1-5 (1 Ts 3,8); Conl., 23,5,4 (1 Ts 3,8); Conl., 24,11-12 (1 Ts 3, 7-10).
[135] Cf. Inst., 10,7,1-5.
[136] Cf. Inst., 10,7,6-10,16-1.
[137] Cf. Inst., 10,12,1.
[138] Cf. Inst., 10,12,1.
[139] Cf. Inst., 10,21,1-4.
[140] Cf. Inst., 10,21,4-5.
[141] Cf. Inst., 10,7,1.
[142] Cf. Inst., 10,7,1 e 7, 10,14,1.
[143] Cf. Inst., 10,7,1 e 10,12-14.
[144] Cf. Inst., 10,7,3.
[145] Cf. Inst., 10,7,2; 10,12,1; etc.
[146] Cf. Inst., 10,7,1-3.
[147] Inst., 10,7,3.
[148] Inst., 10,7,4.
[149] Cf. Inst., 10,7,4-5.
[150] Inst., 10,7,5.
[151] ibid.
[152] Cf. Inst., 10,7,6.
[153] Cf. Inst., 10,8,1.
[154] Inst., 10,8,2.
[155] Cf. Inst., 10,8,3-10,9,1.
[156] Cf. Inst., 10,10-11.
[157] Cf. Inst., 10,13-16.
[158] Cf. Inst., 10,17-19.
[159] Cf. Inst., 10,19,1 e 10,22,1.
[160] Cf. Conl., 18,8,1-2.
[161] Cf. Conl., 18,9-11.
[162] Cf. Conl.,18,12-16.
[163] Cf. Conl., 18,11,2.
[164] Cf. SERAPIONE, 4 (878), in Vite e detti dei Padri del Deserto, a cura di Lucina Mortari, Roma 1975, p. 186. Si suppone che nel fondo della spiegazione di Cassiano sta una tradizione egiziana che nella sua forma più originale è stata conservata nell'Apophtegmata.
[165] ibid.
[166] Conl., 18,11,3.
[167] ibid.
[168] Conl., 24,10,1.
[169] Conl., 24,12,1. Si nota anche che qui esiste una fonte che proviene dalla Vita di Antonio, dove Atanasio dice che il giovane monaco Antonio: "pesava la propria mente perché non si sviasse e non tornasse a rimpiangere le ricchezze dei genitori; non aveva più ricordo della famiglia, ma tutto il suo desiderio e il suo zelo erano concentrati nell'ascesi cristiana. Lavorava con le sue proprie mani, avendo sentito che sta scritto: 'L'uomo sfaccendato e ozioso non abbia di che mangiare' (2 Ts 3,10). Parte del suo lavoro la dedicava a procurarsi il pane; il resto lo spendeva per i poveri"; ATANASIO, Vita di Antonio, 3, 5-6.
[170] Cf. per esempio J. DECARREAUX, Les moines et la civilisation en Occident, Paris 1962, p. 144 dove scrive sul Lerino nell'epoca di Cassiano con quale lui aveva, come si sa, il contatto: "Lérins, encore à l'abri du monde où s'installent les Barbares, est le refuge de la haute culture...En arrivant dans les îles, les grands moines apportaient une formation première qu'ils tenaient de leur naissance et de leur éducation antérieure. Les relations, les affinités sociales ou intellectuelles ont...réuni en une sorte de collège monastique ces aristocrates des lettres et de la religion"; cf.F. PRINZ, Frühes Mönchtum im Frankenreich. Kultur und Gesellschaft in Gallien, den Rheinlanden und Bayern am Beispiel der monastischen Entwicklung, München-Wien 1965.
[171] Le informazioni fondamentali si trovano per esempio: A. GUILLAUMONT, "Messaliens", in DSp, X, coll. 1074-1083.
[172] Cf. M.G.MARA, "Una particolare utilizzazione del corpus paolino nell'Epistula ad monachos", in Mémorial Dom Jean Gribomont (1920-1986), Roma 1986, pp. 411-418.
[173]Dicono (cioè i messalianisti) di rifiutare, come abominevole, il lavoro manuale, e perciò chiamano se stessi 'spirituali', non considerando possibile né giusto che tali persone tocchino oggetti sensibili. Anche in questo aboliscono la traduzione degli Apostoli, TIMOTEO DI CONSTANTINOPOLI, De iis qui ad Ecclesiam accadunt, PG 86, 50; cito secondo M. PAPAROZZI, La "Grande Lettra" di Macario/Simeone. Introduzione, Roma 1983, p. 8.
[174] "Introducono poi una durezza disumana nei confronti dei poveri, dicendo che per chi rinuncia al mondo o comunque inizia a dedicarsi ad opere di bene non è opportuno contentarsi dei pubblici mendicanti, delle vedove rimaste sole, di chi deve affrontare disgrazie o impedimenti fisici o malattie o spietati usurai, o ha subito incursioni di briganti o barbari o simili sciagure; bisogna invece dare tutto a loro. Sono loro infatti - dicono - i veri poveri nelle spirito", GIOVANNI DAMASCENO, De haeresibus compendium, 80 , PG 94, 731; cito secondo, M. PAPROZZI, op. cit., p. 11. Certo che queste testimonanze sono tendentivi, dall'altra epoca e dall'altro ambiente, però probabilmente corrispondano anche alle generale tendenze del movimento che erano presenti anche nella Provenza nei primi decenni del quinto secolo.
[175] Cf. M.G. MARA, op. cit., p. 417.
[176] Cf. E. GRIFFE, "Cassien a-t-il été prêt d'Antioche?", in BLE, 55 (1954), p. 140-145.
[177] Cf. M.G. MARA, op. cit., p. 416.
[178] P. KRAMMER, Charisma maximum, untersuchung zu Cassians Vallkommenheitslehre und seiner stellung zum Messalianismus, Lowen, 1938.
[179] Cf. Cf. M.G. MARA, op. cit.
[180] Cf. Conl., 3,7,9-11, dove Mt 19, 21 vene meso insieme con 1 Cor 13, 3-7; o Inst., 10,21,3 dove è citato Giov 4, 34 e 6, 27 insieme con 1 Ts 4, 11-12 ( sono i brani spesso usati per i messalianisti); cf. M.G. MARA., op. cit., 415-416.
[181] Cf. Conl., 24,10,1.
[182] Cf. Conl., 24,12,1.
[183] Conl., 23,5,4.
[184] Neanche nella sua ultima opera rivolta contro Nestorio.
[185] Cf. Conl., 11,6,1-2; 11,9,1; 11,10,1,; 11,12,7-8; 11,13,7.
[186] Cf. Conl., 1,6,2-3; 1,11,1-2.
[187] Cf. Conl., 3,7,7-11.
[188] Cf. Conl., 15,2,2-3; 15,7,5.
[189] Cf. Conl., 16,22,4; 16,27,2-3.
[190] Cf. Conl., 7,5,6.
[191] Cf. Conl., 8,25,6.
[192] Cf. Conl., 17,19,7.
[193] Cf. A. DE VOGÜE, "Pour comprendre Cassien. Un survol des 'Conférences'", in CCist, 39 (1977), p. 250-272.
[194] ibid.
[195] Cf. Conl., 11,12,7: "si linguis hominum loquar et angelorum"; Conl., 15,2,3: "hominum et linguis angelorum".
[196] Cf. Conl., 11,12,7: "et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia, et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam"; Conl., 15,2,3: "et plenitudini fidei, quae etiam montes transferat, et omni scientiae ac prophetiae".
[197] Cf. Conl., 1,6,2; 3,7,7; 11,12,7.
[198] Cf. Conl., 3,7,9.
[199] Cf. Conl., 15,2,3. Invece "tredidero corpus meum" Cassiano mette l'espresione "glorioso martirio".
[200] Cf. Conl., 3,7,11: "caritas quae patiens et benignus".
[201] Cf. Conl., 7,5,6.
[202] Cf. Conl., 1,6,3: "non aemulari, non inflari, non iritari (cf. 1 Cor 13,5), non agere paerperam, non quaeres quae sua sunt (1 Cor 13,5), non super iniquitate gaudere (cf. 1 Cor 13,5), non cogitat malum (1 Cor 13,5)".
[203] Cf. Conl., 1,6,3: "non aemulari, non inflari, non irritari, non agere perperam, non quaerere quae sua sun, non super iniquitate gaudere, non cogitare malum"; Conl.,3,7,9: "quae patiens, quae benigna est, quae non aemulatur, non inflatur, non irritatur, non agit perperam, non quaerit quae sua sunt, non cogitat malum, quae omnia suffert, omnia sustinet".
[204] Cf. Conl., 16,22,4; 17,19,1.
[205] Cf. Conl., 11,10,1: "non irritatur, non inflatur, non cogitat malum, omnia suffert, omnia sustinet".
[206] Cf. Conl., 3,7,11; 7,5,6; 11,10,1; 16,27,2.
[207] Cf. Conl., 1,11,1.
[208] Cf. Conl., 11,13,7; 11,17,8.
[209] Conl., 8,25,6.
[210] Conl., 11,6,1.
[211] Conl., 11,9,1.
[212] Conl., 15,2,3.
[213] Conl., 8,25,6.
[214] Conl., 11,6,2: "nunc, inquit, manet fides, spes, caritas, tria haec".
[215] Cf. Conl., 7,5,1-4.
[216] Cf. Conl., 7,5,6.
[217] Cf. Conl., 8,25,6.
[218] Cf. Conl., 15,2,2-3; 15,7,5.
[219]Conl., 15,2,2; una simile spiegazione con una allusione a 1 Cor 13, 4 si trova nel secondo brano di questa conferenza, cf. Conl., 15,7,5.
[220]Conl., 15,2,3.
[221] Cf. Conl., 16,22,4.
[222]Conl., 17,19,7; Cassiano cita: "nemo quod suum quaerat, sed quod alterius (1 Cor 10,24), caritas non quaerit quae sua sunt (1 Cor 13,5), sed ea quae aliorum (Fil 2,4), non quaero quod mihi utile, sed quod multis, ut salvi fiant (1 Cor 10,33)". A questa costruzzione permettono le tre ripetizioni messi in seguto: nemo, non, non; quaeret, quaerit, quaero; sed, sed, sed; e alterius, aliorum, multis.
[223] Cf. Conl., praef., II,2, dove Cassiano scrive: "quibus ea, quae de perfectione in praeteritis opusculis nostris obscurius forsitan conprehensa vel praetermissa sunt, supleantur"; cf. anche A. DE VOGÜE, op. cit.
[224] BOSSUET, Tradition des nouveaux mystiques, Edit. Ferrère, 1863, t. 9, 630-680 (cito secondo M.OLPHE-GALLIARD, "Les sources de la conférence XI de Cassien", in RAM, 1935, 289-298, nota 1.
[225] M. OLPHE-GALLIARD, op. cit.
[226] S. MARSILI, op. cit, soprattutto le pagine 101, 116-121, 156-157.
[227] Cf. Conl., 11,6,1; 11,9,1.
[228] Cf. Conl., 11,12,8; 11,13,7.
[229] PL 49, 851, nota c.
[230]Conl., 11,6,1; un schema simile che unisce le tre virtù sottolineando la carità "quae numquam cadit" si trova anche nel capitolo 9,1 di questa conferenza.
[231] In modo esplicito l'Autore si referisce alla 1 Cor 13, 13; cf. Conl., 11,6,2, dove dice: "Et idcirco beatus apostolus omnem salutis summam in istarum trium virtutum consummatione concludens 'nunc', inquit, 'manet fides, spes, caritas, tria haec".
[232] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 118-119.
[233]Conl., 11,12,8.
[234] Si nota che l'Autore, riferirendosi a 1 Cor 13, 8, usa l'espresione "caritas vero perpetuo permansura"; cf. Conl., 15,2,3; o anche aggunge al versetto "caritas quae nescit cadere", come complemento l'espressione "inmobilis permanseret"; cf. Conl., 8,25,6. Sottolineamo una dimensione temporale che ci appare accanto a quaesta morale.
[235] Cf. Conl., 11,13,7: "Tanta enim ubertatis eius est magnitudo, ut, quem semel sua virtute possederit, non partem, sed totam eius occupet mentem. Nec inmerito. Illi etenim quae 'numquam excidet' (1 Cor 13, 8) cohaerans caritati non solum replet, sed etiam perpetua et inseparabili eum quem ceperit possidet iugitate, nullis laetitiae temporalis vel voluptatum oblectationibus inminutus".
[236] Cf. S. MARSILI, op. cit., 119.
[237] Conl., 1,6,3.
[238] Conl., 3,7,8.
[239] Conl., 3,7,10-11.
[240] Conl., 11,10,1.
[241] Conl., 1,7,2.
SKOPOS E TELOS
La distinzione fra skopos e telos proposto da Giovanni Cassiano nella sua prima Conferenza è stata già analizzata dagli specialisti[1]. Per Cassiano lo skopos, il proposito, è il primo obiettivo raggiunto che si può conseguire; è il fine ultimo, il telos, la finalità ultima a cui tutto è subordinato[2]. Generalmente si può dire che il primo obiettivo è legato alla purezza del cuore e alla carità, il secondo alla contemplazione e alla vita eterna[3]. Questo articolo cercherà di mostrare l’ispirazione biblica e sopprattutto il ruolo che i testi di san Paolo giocano in questa teoria - l’aspetto che non è stato ancora sufficientemente studiato[4].
Si sa che Giovanni Cassiano, formulando la sua teoria riguardo allo skopos e al telos, aveva dietro di sé la tradizione ellenistica o piuttosto stoica[5]. Essa, considerando gli aspetti morali, riteneva che lo skopos fosse uno scopo ideale, che si sarebbe espresso in una parola astratta o nella intenzione; invece che il telos fosse la realizzazione dell'ideale, un atto[6]. Ma pare che - come dice S. Marsili - "tra gli Stoici e Cassiano più che i termini e la distinzione non vi sia altro di comune. Il fondamento stesso, o punto di distinzione è differente"[7]. Dall'altra parte, Cassiano poteva ereditare l'insegnamento diffuso nella scuola alessandrina, incominciando da Clemente d'Alessandria[8], dove - parlando molto generalmente - lo skopos significava, fra le altre cose, una perfetta osservanza dei comandamenti, e il telos si riferiva alle realtà escatologiche[9]. Con i Padri Cappadoci[10] e con Evagrio[11] questi vocaboli sono stati inseriti nel movimento monastico. Soprattutto la parola skopos veniva riservata alla vita ascetica o puramente monastica[12]. Però la forma finale di una dottrina, legata con questi due termini, che è diventata la più conosciuta, e ha influito in seguito maggiormente sulla tradizione è questa di Cassiano. In essa i testi paolini hanno un posto privilegiato.
All'inizio della sua spiegazione Cassiano dice: "Il fine (finis) del nostro cammino è indubbiamente il regno di Dio, o regno dei cieli, ma la via ( destinatio uero, id est scopos) che ad esso conduce è la purezza del cuore, senza la quale nessuno può raggiungere quel fine"[13]. Si trova qui dunque la distinzione stoica fra skopos (nel latino di Cassiano tradotto come "destinatio") e telos (tradotto come "finis"). La prima realtà è stata legata, come già è stato detto, alla purezza del cuore, la seconda alla vita eterna o al regno di Dio[14]. Si sente chiaramente in questa frase l'eco dell'insegnamento o dei suggerimenti proposti dalla tradizione precedente.
Qualche riga più avanti l'Autore, per spiegare meglio il suo pensiero, si serve dall'immagine dei tiratori d'arco. Poi confronta la sua concezione con la Bibbia, o più precisamente, con i testi di san Paolo e dice: "Applichiamo ora l'immagine alla professione monastica. Il suo fine (finis) è la vita eterna, dice infatti l'Apostolo: 'Voi avete come frutto la vostra santificazione (sanctificatio), come fine (finis) la vita eterna'(Rom 6,22)"[15].
Il legame fra Paolo e Cassiano è chiaro. Il termine telos, abbastanza diffuso nel Nuovo Testamento[16], è tradotto dal nostro monaco con "finis" e legato con la vita eterna. Però nel testo paolino manca la parola skopos, senza la quale tutto lo schema cade. Infatti, non esiste nella Bibbia nessuna frase dove i due termini si trovino insieme. Cassiano allora lega i due termini insieme elaborando una certa interpretazione e così "completa" il testo ispirato, dicendo in seguito:
"La via (scopos) che porta alla fine è la purezza del cuore, che l'Apostolo giustamente chiama santità (sanctificatio). Senza di essa è impossibile reggiungere il fine (finis); è come dire in altre parole: la vostra via (scopos) è la purezza del cuore, il termine d'arrivo (finis) è la vita eterna"[17].
L'Autore per sostenere tutta la sua concezione, costruisce un ponte fra le parole usate dall' Apostolo. Lega, dunque, "sanctificatio" (hagiosmòn), "puritas cordis" e skopos, sostituendo la prima con le altre due.
Ma sembra che Cassiano stesso, non essendo convinto di questa prova che poteva essere considerata come troppo "retorica", abbia usato un altro brano dell'Apostolo, dove si trovava la parola skopos. Questo non era cosa ovvia. Esigeva invece una conoscenza precisa della Bibbia e del greco. Infatti, la parola skopos, presente in Fil 3, 14 e usata da Cassiano, è hapax legomenon del Nuovo Testamento e nella traduzione latina non spiccano adeguatamente il suono e il significato originario. Era necessaria una sottile spiegazione e Cassiano la dà. Dice:
"Il santo Apostolo, parlando altrove della nostra meta (destinatione...id est scopon), dice: 'Dimenticando quel che mi è dietro le spalle, e slanciandomi alle cose davanti, vado dietro al segno (destinatio), per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio' (Fil 3, 13-14). Il testo greco è in questo luogo ancor più chiaro: esso suona così 'kata skopon dioko', cioè vado dietro al segno (destinatio). E' come se l'Apostolo dicesse: 'Nel mirare al bersaglio (destinatio), io dimentico ciò che sta dietro a me - cioè i vizi dell'uomo carnale - e cerco di raggiungere il mio fine che è il premio celeste'" [18].
Il termine greco skopos è stato tradotto con "destinatio". Poi è da notare anche che la parola "idem" (lo stesso!) nella citazione appena presentata ha un ruolo importante in tutta questa argomentazione. Cassiano infatti usa questo secondo brano come complementare al primo. Ecco "lo stesso" Apostolo, che parlava di telos, adesso parla su skopos. Dunque, si possono mettere insieme le due parole che si trovano separate nella Bibbia e così si salva la logica dello schema skopos-telos. Dunque le lettere paoline o la persona dell'Apostolo ("idem") sono servite come un nodo per legare le due realtà e le due parole. Così la teoria è stata inserita nella Bibbia.
Ma più importante è la lettura attenta di questo brano fatta dal nostro Autore che in primo luogo ha distinto fra "destinatio" (skopos) e "brauium" ("brabeion"). Dietro le spalle stava l'immagine delle corse nello stadio e così il primo termine si riferirebbe a "correre nello stadio verso la meta", il secondo a "ricevere il premio"[19]. Ma la distinzione non era tanto chiara quanto la voleva forse Cassiano. Però in seguito abbiamo a che fare nuovamente con un certo "gioco". Nel testo paolino si notano i due movimenti: (1) dimenticare il passato ("quae posteriora sunt obliuiscens"); e (2) correre verso il futuro ("ad ea uero quae in ante sunt extendens me"), verso la meta ("ad destinatum - skopos - persequor"), verso il premio ("ad brauium supernae uocationis domini"). Si vede che lo skopos si colloca nel secondo movimento e significa una andata, un passo avanti. Invece Cassiano lega lo skopos ("destinatio") con il primo movimento (dimenticare il passato) e dice: "Nel mirare al bersaglio (destinatio), io dimentico ciò che sta dietro a me" e aggiunge: "cioè i vizi dell'uomo carnale".
Così il brano di san Paolo è stato inserito nel contesto del sistema ascetico di Cassiano, nel quale per raggiungere la purezza del cuore (skopos) si devono vincere i vizi seguendo i precetti del vangelo[20]. In altre parole - in riferimento anche al vocabolario di san Paolo - occorre lasciare o combattere l'uomo antico, terrestre o animale[21].
Ma il "gioco" interpretativo[22] ha ancora un secondo sviluppo. In tutta questa spiegazione mancava la parola telos ("finis"). E perciò l'Autore prende la frase già conosciuta, cioè: "per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio", e cambia le parole dicendo: "cerco di reggiungere il mio fine (finis) che è il premio celeste". Così termina il nucleo della sua argomentazione.
Dopo, ma soltanto come una conseguenza di queste considerazioni, Cassiano confronta la sua tesi, la quale dice che skopos è la rinuncia all'uomo antico, con 1 Cor 13, 3-5[23]. Così ritorna all'aspetto positivo, o se si vuole, a questo secondo movimento di Fil 3,14. Andare avanti, correre verso la meta, significa, accanto alla rinuncia all'uomo antico e accanto al combattimento con i vizi, anche la vita secondo amore. E così Cassiano arriva alla formula secondo la quale la purezza del cuore e lo skopos sono legati con l'amore: "Bisogna dunque esercitare le virtù secondarie - digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre Scritture - in subordinazione alla virtù principale, che è la purezza del cuore o carità (propter principalem scopon, id est puritatem cordis, quod est caritas)"[24].
Invece nella parte successiva di questa conferenza, ma non in modo diretto, il tema del fine (telos), legato con il regno di Dio o con il regno celeste, sarà elaborato ancora maggiormente, specialmente sulla base dei testi escatologici dell'Apostolo e in confronto con la teoria sulla contemplazione[25].
In conclusione si può dire che Cassiano, costruendo la sua teoria basata sui due termini telos e skopos: (1) era un erede della tradizione ellenistica, nella quale specialmente la scuola stoica distingueva il significato di questi termini nella sua riflessione; (2) conosceva probabilmente l'unione fra skopos e la vita secondo i precetti del vangelo, e fra telos e la vita eterna elaborata negli ambienti alessandrini (Clemente, Evagrio); (3) aveva anche dietro di sé la tradizione ascetica o monastica in cui soprattutto il termine skopos era usato per definire l'ideale di questa tradizione. Però il merito di Cassiano, in questa lunga serie di riflessioni, era di inserire con forza e chiarezza ambedue i termini nel contesto biblico - in particolare paolino. E così è stata precisata la dottrina classica per la spiritualità monastica posteriore che legava, da una parte, skopos con la purezza del cuore e con la carità e, dall'altra, telos con la contemplazione e la dimensione escatologica. In questo caso si osserva da una parte il ruolo principale e ispirato che proveniva senz'altro dall'Apostolo Paolo, dall'altra il genio della sintesi e la maestria nel campo dell'interpretazione scritturistica di Cassiano. Così le tre dimensioni: ellenistica, biblica e questa della tradizione patristico-monastica sono state unite, offrendo uno schema permanente e classico per la spiritualità.
SAN PAOLO, GIOVANNI CASSIANO E LE STRUTTURE "ARITMETICHE"
a) Le osservazioni generali
Si potrebbe dire che Cassiano amava le cifre. E se il lettore è un po' attento scoprirà cifre dappertutto. Esse giocano un ruolo importante nella struttura dell'Ufficio e della giornata[26], nel calendario[27] o nell'ordine dei Salmi[28]. Poi si osserva la grande cura con la quale l'Autore sottolinea una struttura "aritmetica" in tutta la sua opera letteraria cercando forse di dare a questa una dimensione estetica che corrispondeva alla sensibilità dell'epoca[29]. E così le due grande parti delle sue opere dedicate al monachesimo si dividono in quattro libri iniziali[30] e in otto libri sui vizi così da raggiungere il numero di dodici[31]. Occorre aggiungere i dieci libri delle Conferenze[32] a cui si devono unire ancora altre due parti composte da sette libri ciascuna[33] che fanno insieme il numero di ventiquattro che corrisponde allo stesso numero degli anziani dall'Apocalisse[34].
In seguito, soltanto per sottolineare la sua sensibilità in merito, voglio elencare ancora alcuni altri punti. Ci sono per esempio secondo Cassiano i due Testamenti[35], i due generi degli angeli[36] e tanti elenchi di numeri che ordinano i vizi[37] con i quali si potrebbe veramente fare uno schema molto elaborato che aprirebbe forse gli occhi sulla struttura della memoria e della mentalità di Cassiano. Poi si notano le tre specie di vocazioni[38], i tre gradi della rinuncia[39], i tre stati dell'anima[40], le tre fonti dei pensieri[41], le tre categorie (dal punto di vista dei valori) delle cose[42], le tre cose che rendono la preghiera impossibile[43] e le tre che la aiutano[44]. Sono ancora tre cose che spingono la gente a non peccare e che conducono alla perfezione[45], le tre specie della scienza spirituale[46] e i tre generi dei monaci[47]. Con il numero quattro sono legati per esempio le specie della preghiera[48], i sensi della Scrittura[49] o i mezzi per combattere i vizi in genere[50]. Si notano anche i sei gradi della castità[51]. Cassiano non dimentica anche di segnalare alcuni numeri presi dalla Scrittura anche se non hanno nessuna importanza riguardo alle spiegazioni, come i cenni sugli undici discepoli del Signore[52] e patriarchi[53] o sui dodici troni preparati per gli apostoli[54] o sui dodici figli di Giacomo[55], etc.
Insomma, si può dire che le strutture aritmetiche avevano per Cassiano una importanza abbastanza grande. Essa influiva sul suo modo di pensare ed esprimere le cose ed era legata fortemente con la sua esegesi. Però non esiste nessuno studio su questa materia riguardo all'opere di Cassiano, così come ne abbiamo per Agostino[56] o Cassiodoro[57], tutto resta ancora da studiare. Almeno una cosa sembra sicura: su qualunque aspetto della sua esegesi si porti lo studio, si deve includere questa dimensione. Qui vogliamo fare qualche osservazione che tocca i testi paolini.
Lasciamo da parte le considerazioni della conferenza undicesima basate su 1 Cor 13, 13, nella quale si parla della fede, della speranza e dell'amore come mezzi per combattere contro il peccato e per progredire verso la perfezione[58]. Lo schema, basato sul numero tre e legato alle tre virtù teologali, è chiaro. Prendiamo ora in considerazione i tre stati dell'anima, le tre forme della lussuria e dell'ira.
Cassiano allora suppone, basandosi sulla Scrittura, che ci sono tre stati dell'anima: lo stato carnale (carnalis), lo stato animale (animalis) e lo stato spirituale (spiritalis)[59]. Per confermare le sue tesi sui tre stati dell'anima, cita san Paolo e si riferisce soltanto alla prima lettera ai Corinzi e ai Galati. E così da 1 Cor 3, 2-3 prende la parola carnales, da 1 Cor 2, 14, dove l'Apostolo parla dell'uomo naturale, la parole animalis e da 1 Cor 2, 13 e da Gal 6, 1 la parola spiritalis. Questi tre termini provengono dai tre termini greci (presenti in questi stessi versetti, cioè: sarkikoi, psychikoi o psychikos e pneumatikoi o pneumatikos) e hanno influito su tutta l'antropologia del cristianesimo antico[60]. Però Cassiano non si riferisce al testo greco e non sviluppa qui un pensiero speculativo o un'antropologia molto elaborata. L'unica cosa che fa è un insegnamento morale (o meglio moralistico) abbastanza lungo, nel quale si riferisce ai monaci che sono tiepidi, cioè animali, e per questo peggiori di quelli freddi o carnali[61]. Si sente subito un tono critico e offensivo che fa pensare ai problemi pratici del monachesimo provenzale già nella prima metà del quarto secolo. Dietro certamente sta anche il versetto dall'Apocalisse 3, 15-16. Ma in genere questa parte, al di fuori della prospettiva unicamente moralistica, non presenta un interesse più specifico.
b) Le tre specie della lussuria e dell'ira
Nelle opere monastiche è soprattutto il tema dei vizi che è stato fortemente legato, strutturalizzato o schematizzato ai numeri. Le speculazioni, qualche volta per noi divertenti, si trovano specialmente nella conferenza quinta. E proprio là nel capitolo undicesimo, Cassiano presenta tutta la catena delle divisioni nelle quali un ruolo principale è giocato dal numero tre (le tre specie della golosità[62], alle quali corrispondono i tre mezzi contrapposti[63], le tre forme della lussuria[64], le tre forme dell'avarizia[65] e le tre forme dell'ira[66]). Là anche sono utilizzati i testi paolini.
Il punto di partenza per la lussuria è: "Fornicationis genera tria sunt"[67]. Il primo grado consiste in un contatto sessuale fra l'uomo e la donna ("per conmixtionem sexus"), il secondo quando si tocca la donna ("femineo tactu") e il terzo si riferisce soltanto ai pensieri ("quod animo ac mente concipitur"). Il primo è proposto senza nessun riferimento biblico, il secondo si riferisce al peccato di Onan di Gen 38 e a 1 Cor 7, 8-9, il terzo al Mt 5, 28. Si vede che c'è una conseguenza logica che va dalle cose più gravi e ovvie a quelle più fini e nascoste. Però, come se questo non bastasse, Cassiano sottolinea che tutte le tre forme sono state anche proclamate da Paolo. Cita allora la lettera ai Colossesi 3, 5 dove sono elencati di seguito (secondo il testo latino) fornicatio, inmunditia e libido, e in seguito la lettera agli Efesini 5, 3 e 5 dove ritornano fornicatio ed inmunditia[68]. Non si sa però a quale genere di lussuria corrisponda uno di questi nomi. Infatti, a fornicatio, inmunditia e libido nel testo greco (al quale Cassiano non si riferisce) corrispondono porneia, akatharsis e pathos. Essi in realtà sono molto simili nel significato. Inoltre, queste parole sono strappate da un contesto paolino di elenchi che enumerano in ciascun caso ancora diversi generi di "vizi". E così accanto alle tre parole che corrispondono ai tre generi di lussuria in Col 3, 5, si trovano ancora i desideri cattivi e l'avarizia; e nel caso della lettera ai Efesini 5, 3 e 5 accanto della fornicazione e impurità appare anche l'avarizia e la cupidigia. Sembra però che lo schema paolino nei tre brani usati da Cassiano è duplice, cioè da una parte abbiamo i peccati della lussuria (in greco si vede questo ancora più chiaramente) e dall'altra quelli legati all'avarizia. In conclusione si può dire che nel testo di Cassiano si osserva una lettura tendenziosa che non ascolta tanto il testo scritturistico ma lo inclina ai suoi progetti o presuppositi legati al numero tre. Dobbiamo qui considerare anche un processo di strutturalizzazione o schematizzazione che ha dominato la teologia latina nei secoli seguenti. Un primo approccio è stato fatto fra gli altri da Cassiano.
Qualche riga più avanti, abbiamo una cosa simile. Giovanni Cassiano presenta i generi dell'ira. Incomincia come nel caso precedente dicendo: "Irae genera sunt tria"[69]. E poi, presenta questi tre generi usando però soltanto la terminologia greca e riferendosi alla lettera ai Colossesi 3, 8:
"Il primo è fuoco che arde dentro: i greci la chiamano 'thumos'. Il secondo si manifesta violentemente nelle parole e negli atti. I greci lo chiamano 'orge'. Di questi due primi generi, così parla l'Apostolo: 'Buttate via anche voi tutte codeste cose: ira, animosita'(Col 3, 8). Il terzo genere d'ira, non è come i due primi, una fiamma di poca durata, è un fuoco che cova per giorni e mesi. I greci lo chiamano 'menis'"[70].
Prima si deve dire che le tre parole greche propriamente si riferiscono all'ira. Ad un primo sguardo sembrano simili, però se si studia il loro contenuto più attentamente si vede che le attribuzioni fatte da Cassiano sono molto giuste. Thumos può significare veramente, fra l'altro, la sede dell'ira e delle emozioni e così corrisponde alla dimensione interiore che sottolinea Cassiano. Orge si lega propriamente alla rabbia, all'atto della collera, e menis esprime uno stato prolungato nel tempo che può essere chiamato anche corruccio[71]. Si vede però che nel caso del testo di Cassiano abbiamo a che fare con una riflessione e sistematizzazione già sviluppata.
Il ruolo principale è sostenuto dal numero tre. E quando viene citato il testo paolino di Col 3, 8 copre soltanto due dei termini greci, cioè: thumos e orge. Il terzo termine non si trova nel Nuovo Testamento. Si nota che il testo paolino qui usato elenca dopo queste parole anche gli altri "vizi": malizia (kakia), maldicenza (blasfemia) e parole oscene dalla bocca (aischologia), che non entrano nello schema di Cassiano. Di nuovo abbiamo a che fare con un uso dei testi sacri molto tendenzioso. Si pone una domanda: lo schema dei tre generi d'ira è stato creato per il monaco di Marsiglia? O forse ha una fonte nella filosofia greca? O forse ancora un'altra? Perché ha usato il testo paolino?
A mio parere, dietro questo problema sta un brano tratto dal Siracide 27,30 - 28,19 che considera il tema dell'ira, del rancore o delle liti. Si vede, nella versione dei Settanta, che i tre termini greci là vengono usati: due volte menis (Sir 27, 30 e 28, 5), tre volte orge (27, 30; 28, 3 e 10) e due volte thumos (28, 10 e 19)[72]. La traduzione della Volgata trascura completamente le differenze fra i termini traducendo menis sempre con ira, orge con furor o ira, e thumos con irascendia. Si nota anche che il testo dei Settanta mette insieme in una riga menis e orge (Sir 27, 30 e 28, 3-5) e dopo si trovano anche insieme thumos e di nuovo orge (Sir 28, 10) che vengono in seguito usati da san Paolo in Col 3, 8 soltanto con un ordine inverso, cioè prima orge e dopo thumos. Cassiano invece segue l'ordine del Siracide nella versione dei Settanta, anche se si riferisce direttamente ai testi di Paolo.
Alla fine si può dire con grande probabilità che la fonte per la sua sistematizzazione dell'ira nella conferenza quinta, sta nel testo del Siracide nella versione dei Settanta. Cassiano però trascura totalmente questa fonte (come lo fanno anche tutte le edizioni delle sue opere) e si riferisce soltanto a Paolo. Penso che il monaco di Marsiglia fosse erede di una tradizione egiziana che già prima aveva riflettuto sul problema dei vizi, apprezzando molto i libri sapienziali e speculando su di essi facendo schemi e divisioni. Forse Cassiano aveva sotto mano un manuale, un riassunto proveniente da questa tradizione, o la ricordava bene. L'uso della lettera ai Colossesi 3, 8 poteva essere infatti un caso o forse il brano si trovava in alcune "catene" della Scrittura che Cassiano possedeva. Siamo nel campo delle ipotesi. Una risposta potrebbe riempire "il buco" che sta fra il testo del Siracide e la sistematizzazione dei generi dell'ira proposta da Cassiano e legata a Col 3, 8. Gli studi sulle fonti e sull'esegesi dell'Autore possono dare qualche risposta nel futuro.
c) I quattro modi della preghiera
Con il numero quattro sono legati i modi della preghiera e i famosi sensi della Scrittura. Come nei casi precedenti, ci interessa il ruolo e il modo di usare i testi dell'Apostolo in Cassiano. Tutta la spiegazione delle quattro specie della preghiera è stata stesa fra i due versetti dell'Apostolo. Il primo, che sta anche come principio della spiegazione, proviene da 1 Tm 2, 1[73] e il secondo, che la conclude, viene citato da Fil 4, 6[74]. Cassiano suppone che proprio l'Apostolo in 1 Tm 2, 1 distingue queste quattro forme[75] fra le quale sono: le preghiere (in latino obsecrationes; in greco al quale l'Autore non si riferisce deeseis), le supplicazioni (in latino orationes; in greco proseuches); le invocazioni (in latino postulationes; in greco enteuxeis) e le azioni di grazie (in latino gratiarum actiones; in greco eucharistias)[76]. E poi spiega attentamente ciascuna specie arrichendola di contenuto dicendo che alle obsecrationes corrispondono le preghiere dell'uomo cosciente del suo peccato che chiede il perdono[77], le orationes sono gli atti nei quali consacriamo o offriamo qualcosa a Dio[78], le postulationes esprimono le nostre domande rivolte a Dio per noi stessi o per gli altri[79]. Finalmente le gratiarum actiones significano l'atto di ringraziamento rivolto a Dio per tutte le cose che ha già fatto e che ha preparato per noi in futuro[80].
La stessa terminologia, soltanto nell'ordine diverso, chiude la spiegazione dell'Autore sulle quattro specie della preghiera con il brano di Fil 4, 6. In seguito sono elencati nella forma singolare: oratio, obsecratio e l'espressione che mette insieme i due termini, già conosciuti dell'elenco precedente, per creare la formule: gratiarum actione petitiones[81]. E' interessante da notare che Cassiano, spesso così attento alle sfumature linguistiche, quando queste possono essere usate per il suo scopo, si riferisce al greco. Qui però ha trascurato il fatto che nell'ultima espressione di Fil 4, 6 gratiarum actione petitiones (come lo traduce la Volgata e che Cassiano usa in questo caso), viene resa nel testo greco con l'espressione eucharistias ta aitemata. E così al posto delle enteuxeis di 1 Tm 2, 1 è stata messa in Fil 4, 6 la parola diversa, cioè aitemata, però con un significato molto simile. Le ambedue parole sono state tradotte in latino con petitiones. Tutti gli altri termini greci e anche la traduzione latina sono gli stessi. Si può dire che il monaco di Marsiglia aveva uno scopo parenetico e morale per le sue opere monastiche e da questo dipendeva in alcuni casi la sua esegesi. Le regole e il metodo non erano sempre i medesimi e non erano usati rigorosamente.
Si vede questo anche nell'altro aspetto legato al tema delle quattro specie di preghiera. In principio l'Autore sottolinea con forza che secondo lui anche l'ordine di queste quattro specie proposte dall'Apostolo: "contiene qualche speciale insegnamento. Perché non è credibile che lo Spirito Santo abbia detto qualcosa per bocca di san Paolo oziosamente e senza una ragione"[82].
Qui è presentata una regola importante per l'interpretazione della Scrittura; in questa prospettiva sono ispirate non soltanto le parole e il loro significato ma anche l'ordine e forse anche il numero[83]. Ma ci si può, o ci si deve, domandare: Cassiano osserva sempre questa regola? E, se no, perché la mette proprio là? La risposta è semplice. Tutta questa bella teoria serviva a lui molto bene per riscrivere il processo del progresso della preghiera nella vita spirituale iniziando dai principianti e finendo allo stato della contemplazione ormai perfetta[84].
D'altra parte, prima di citare il secondo versetto dell'Apostolo di Fil 4, 6, dove l'ordine è chiaramente diverso, non dimentica di mettere in evidenza, che finalmente queste quattro specie della preghiera appena spiegate con grande cura e attenzione "devono fondersi in unica supplica"[85]. Dietro tutto questo si riconosce soprattutto Cassiano come pedagogo, che sa usare i metodi e le regole, però senza esserne schiavo. O forse non voleva o non poteva essere tanto conseguente.
d) I quattro sensi della Scrittura.
Riguardo ai quattro sensi della Scrittura, il pensiero di Cassiano è stato posto sui due testi di san Paolo: Gal 4, 22-27 e 1 Cor 14, 6. Verso di essi confluiscono anche gli altri: 1 Cor 10, 1-4; 11, 13; 15, 3-5; Gal 4, 5; 1 Ts 4, 12-15; e dall'Antico Testamento: Dt 6, 4; Sal 147, 12; Pr 22, 20; 31, 21; giocando però un ruolo secondario[86]. Nonostante gli studi molto vasti di H. de Lubac[87], e di M. Olphe-Galliard[88], tutto il lavoro più attento sui quattro sensi della Scrittura in Cassiano resta ancora da fare. Qui vogliamo fermarci sui testi paolini proponendo soltanto un approccio che resterà molto superficiale.
All'inizio della sua spiegazione Cassiano interpreta, in modo molto retorico, Pr 31, 21 e 22, 20[89] e propone (o suppone?) i quattro generi d'interpretazione per la Scrittura[90]. Essi sono: historia, allegoria, anagogia e tropologia. Cassiano utilizza Gal 4, 22-23 per interpretare i primi tre generi. Il genere quarto (tropologia) è stato illustrato con un versetto del Salmo 147, 12. Però dal vocabolario scritturistico in questo caso proviene soltanto il secondo genere, cioè allegoria (Gal 4, 24), uno hapax legomenon del Nuovo Testamento. Gli altri termini non si trovano nell Nuovo Testamento. E' da notare che anche nel contesto della versione dei Settanta soltanto il termine greco historia, che Cassiano usa senza riferirsi alla sua origine greca, si può indicare in 2 Mach 2, 24,30,32. Si potrebbe dunque dire che Cassiano semplicemente nomina o suppone i quattro sensi della Scrittura. Da una parte lui è erede della tradizione precedente, ma, d'altra parte, "dilata la tripartizione dei sensi scritturistici (...) in una quadripartizione destinata ad avere fortuna nell'esegesi medievale"[91].
Cassiano a conferma della sua teoria, dopo avere spiegato le quattro specie della Scrittura, si riferisce all'Apostolo e cita 1 Cor 14, 6. Essa è certamente strappata dal suo contesto, dove si trovano di seguito contrapposti all'inutile glossolalia: rivelazione, scienza, profezia e dottrina[92]. Le righe seguenti commentano ciascuna di queste parole e le legano con i quattro generi, o quattro nomi, già elencati, per l'interpretazione della Scrittura[93]. In questo caso l'Autore trascura totalmente la versione greca di 1 Cor 14, 6 che farebbe questo "salto esegetico" abbastanza difficile e crea le quattro catene di termini che non hanno significato tanto identico. Nell'elenco proposto di seguito, la prima parola proviene dalla prima sistematizzazione di Cassiano, la seconda dal testo latino di 1 Cor 14, 6 citata da lui (non secondo l'ordine proposto da Paolo), la terza dal testo greco assolutamente trascurato dall'Autore:
1) historia - doctrina - didache
2) allegoria - reuelatione - apokalypsis
3) anagogia - prophetia - propheteia
4) tropologia - scientia - gnosis
Per historia Cassiano intende solo la coscienza degli eventi passati che si può vedere: "praeteritarum ac uisibilium agnitionem conplectitur rerum"[94]. Poi cita il brano dalla lettera ai Galati 4, 22-23 sui due figli di Abramo.
In un altro luogo, sotto il nome di doctrina, afferma che si deve considerare una pura e ordinata narrazione storica, che non vuole dire nient'altro di ciò che suona nelle parole del racconto ("doctrina uero simplicem historicae expositionis ordinem pandit, in qua nullus occultior intellectus nisi qui uerbis resonat continetur"[95]). Per confermare la sua opinione cita qui tre testi: uno da 1 Cor 15, 3-5 sul fatto della risurrezione di Cristo, il secondo da Gal 4, 4-5 sul "fatto" che Dio ha mandato suo Figlio, e il terzo che ripete il comandamento dal libro del Deuteronomio 6, 4: "Ascolta Israele, il Signore Dio nostro è il solo Signore". Si ha allora a che fare, quando si considera la dimensione storica della Scrittura, o con i fatti storici o con il suono delle parole. Ma mi domando: è veramente possibile identificare la parola historia con la parola doctrina (o con il termine greco didache che sta dietro)? Anche i brani scritturistici non sono tanto chiari. Il primo esempio è stato scelto bene, ma gli altre tre corrispondono di più alla dottrina nel senso del "mistero della fede". Tutta la spiegazione non è tanto chiara o si deve allargare molto di più il senso del termine historia, che fuori della semplice narrazione degli avvenimenti porterrebbe anche ad una dimensione di scienza, di istruzione, di dottrina o di "regola della fede". In effetti avremmo a che fare, in base a questa concezione, con la conoscenza fondamentale della Scrittura, la capacità di interpretazione legata con ciò che oggi potremmo chiamare "il catechismo".
Con il termine allegoria Cassiano intende ciò che è realmente accaduto ma è presentato come segno di un mistero profondo ("ad allegoriam autem pertinent quae sequuntur, quia ea quae in veritate gesta sunt alterius sacramenti formam praefigurasse dicuntur"[96]). Questo viene illustrato con il famoso brano di Gal 4, 24-25, dove si trova la stessa parola allegoroumena e dove si parla dei due figli di Abramo ai quali, infatti, corrispondono le due alleanze. Nel secondo caso allegoria è stata legata con la parola reuelatio (in greco apokalypsis). Cassiano dice che questo rivela il senso spirituale o la verità nascosta sotto la narrazione storica ("reuelatio namque ad allegoriam pertinet, per quam ea quae tegit historica narratio spiritali sensu et expositione reserantur"[97]). Si riferisce ad 1 Cor 10, 1-4 per la quale propone l'interpretazione che riguarda il battesimo e l'eucaristia. Di nuovo si pone la domanda sulla dimensione semantica delle parole: allegoria, reuelatio e apokalypsis. E' possibile legarli, però il senso di ciascuna di queste parole in questo contesto viene cambiata, allargata o approfondita.
Il terzo caso tocca la parola anagogia con la quale, secondo Cassiano, ci si eleva dai misteri spirituali ai più sublimi ed augusti ("anagoge uero de spiritalibus mysteriis ad sublimiora quaedam et sacratiora caelorum secreta conscendens"[98]). In questo punto l'Autore si riferisce a Gal 4, 26-27 dove si parla della Gerusalemme celeste. L'anagogia legata da Cassiano alla prophetia vuol dire che si eleva ogni parola a significati invisibili e futuri ("ad invisibilia ac futura sermo transfertur"[99]). E l'Autore pone una lunga citazione da 1 Ts 5, 12-15 sulla parusia del Signore, dove si riferisce alla dimensione escatologica. Però si può dire che in questo caso il significato della parola anagogia non soltanto è stato allargato e approfondito ma proprio cambiato. Infatti, il termine anagogia significa il movimento in alto, alzare l'ancora o alzare l'anima verso la divinità, o come nel verbo anago, utilizzato da Paolo, può significare risalire dai morti (Rm 10,7)[100]. Cassiano però sottolinea la dimensione escatologica, nel senso temporale che si riferisce al futuro!
Tropologia significa nel primo caso per Cassiano una spiegazione morale che riguarda la purificazione della vita, la formazione ascetica, e la scienza pratica o anche teoretica[101]. Nel secondo caso viene legata al termine scientia (in greco gnosis) nel quale l'Autore mette la capacità di discernere nella pratica tutto ciò che è buono e utile[102] e come esempio mette il versetto di 1 Cor 11, 13 che parla della donna che per la preghiera deve venire senza il velo. In questo caso i tre termini sono stati limitati soltanto alla dimensione morale.
Si vede che la problematica è vasta e si dovrebbe dedicarle uno studio molto più ampio e specializzato, che dovrebbe esaminare le fonti di Cassiano e il modo in cui egli stesso utilizza i quattro sensi nelle sue tre opere. Però questo trascende lo scopo e le possibilità di questo studio che voleva soltanto mostrare il ruolo dei testi paolini utilizzati da Cassiano.
Concludendo questo capitolo si può dire che: per Giovanni Cassiano le strutture "aritmetiche" avevano una certa importanza che proveniva sia dalla cultura ellenistica, sia dalla rilettura dei testi sapienziali della Bibbia fatta soprattutto negli ambienti monastici egiziani, sia dalle inclinazioni proprie dell'Autore. Cassiano purtroppo nasconde le fonti del suo pensiero in questo caso e spesso usa direttamente e soltanto i testi paolini. Il loro uso spesso inclina alle strutture "aritmetiche" e sottolinea più degli aspetti sapienziali quelli morali (o moralistici) nei quali prevale la tendenza alla sistematizzazione.
PREGARE INCESSANTEMENTE
L'espressione di san Paolo: "Sine intermissione orate" (1 Ts 5, 17) fin dal principio ha ispirato i Padri della Chiesa[103]. Non meraviglia, dunque, che il monachesimo, anche fin dai suoi principi si è riferito a questo brano, cercando di mettere in prattica e approfondire intellettualmente il precetto dell'Apostolo[104]. Non poteva dunque mancare questo aspetto nell'opera di Cassiano che si trovava proprio nella corrente di questa tradizione patristica e monastica, scritta e orale[105].
E' interessante notare che le altre indicazioni del Nuovo Testamento che potrebbero ispirare o almeno servire come punti di riferimento sul tema della preghiera continua, come Lc 18,1 e 21,36, Rm 12,12, Col 4,2 e Ef 6,18, non sono presenti in modo esplicito nelle opere monastiche di Cassiano. Invece la frase di 1 Ts 5,17: "Sine intermissione orate" viene citata sette volte[106]; inoltre ci sono alcuni riferimenti non espliciti[107]. Essa è dunque una delle citazioni di san Paolo più usate dal nostro Autore. Qui ci interessa il contesto nel quale questo brano viene citato, interpretato e quale risposta trova nella visione della vita monastica proposta da Giovanni Cassiano.
Il primo punto da considerare, per capire bene il problema, consiste nel fatto che Cassiano si riferisce ai monaci e legge, usa o interpreta 1 Ts 5,17 nel contesto di un monastero. Ad un primo sguardo questa attenzione sembra ovvia. Però, possiede le sue conseguenze che si estendono lontano. Soprattutto perché la prospettiva o il clima è sublime e raffinato. Ecco perché intorno a questa citazione si trovano non a caso citazioni come questa: "il fine del monaco e il culmine della perfezione, nella preghiera perfetta"[108]; o questa:
"Queste cose che sembrano da poco - anzi da nulla - e sono perciò comunemente ammesse dagli uomini della nostra professione, viste nella giusta luce, appaiono gravissime. Non sono certo meno gravi, per la nostra coscienza di monaci, di quel che siano le grandi colpe per la coscienza degli uomini mondani. Le cosiddette "cose da nulla" impediscono al monaco di purificarsi dalle scorie terrestri, per poi elevarsi a Dio. Elevarsi a Dio: ecco dove il nostro cuore dovrebbe tendere incessantemente; la più piccola separazione dal sommo Bene dovrebbe sembrarci una morte: la peggiore delle morti[109].
Il monachesimo, per realizzare questo ideale, portava anche a creare le strutture esterne. Cassiano ne sottolinea due: la separazione dalla cosiddetta vita del mondo e l'organizzazione dell'Ufficio divino[110]. Questi potevano avere influsso sulla sensibilità ed interpretazione della Bibbia. Da una parte, le strutture erano una risposta alle parole della Scrittura, dall'altra - una volta stabilite - si cercava di definire il loro posto con una interpretazione della Scrittura. Ecco perché intorno a 1 Ts 5, 17 troviamo in Cassiano anche una frase come questa che lega il comandamento dell'Apostolo con il lavoro e con la vita nel monastero: "Bisognerà lavorare; non già per desiderio di guadagno, ma per le sante necessità del monastero; questo è il mezzo per togliersi dalle inquietudini e dalle premure della vita presente e per rendere possibile l'adempimento del comando apostolico 'Pregate senza mai cessare'"[111].
In quale modo modo tuttavia poteva un monaco rinunciare a tutte le sollecitudini e quali erano le differenze fra le cure per il mondo e quelle pratiche per il monastero? Questo era un problema aperto al quale Cassiano e la tradizione monastica cercavano di dare una risposta adeguata.
Alcuni considerazioni di Cassiano, riguardo alla preghiera continua, vengono proposte nel contesto dell'Ufficio divino. Lui stesso pone la domanda: "Chi è tanto accorto e vigilante da non lasciarsi mai distrarre dal senso della sacra Scrittura, mentre sta cantando un salmo al Signore? Chi è tanto penetrato nell'intimità divina da poter dire di aver osservato per un giorno solo il comando dell'Apostolo: 'Pregate senza mai cessare?'"[112].
In altri luoghi, il brano di 1 Ts 5,17 ci appare nel contesto della preghiera della sera ("occasum solis orationes"[113]), il che vuol dire nel contesto dei Vespri o semplicemente in riferimento a un certo momento stabilito per la preghiera ("orationis horam"[114]). Però nel monastero di Cassiano non esisteva "laus perennis" e certamente egli sapeva che non per questa strada veniva risolto il problema della preghiera continua. Dice infatti: "Chi prega soltanto quando sta in ginocchio, prega pochissimo. Chi, mentre sta in ginocchio, si lascia prendere dalle distrazioni, non prega affatto"[115]. Con questa ultima frase viene stabilita una vera prospettiva nella quale egli considera il problema della preghiera continua. Le forme esterne, come quella di separazione dal mondo o quella del ritmo delle ore stabilite per l'Ufficio, stabiliscono una certa struttura che nella sostanza deve essere interiorizzata.
Così anche Cassiano stesso annunciava la sua proposta nel libro delle Istituzioni[116] e nella prefazione alle Conferenze[117]. Dalla dimensione esterna, come poteva suggerire il testo paolino considerato letteralmente, passava a quella interna, cercandone la risposta. In altre parole, si potrebbe dire che lasciava lo spazio e il tempo oggettivo, e prendeva quello soggettivo che si può chiamare "uomo interiore" o "vita invisibile". Con questa svolta si potrebbe dire che l'Autore, vedendo che non era possibile compiere questo comandamento letteralmente, è passato dalla dimensione temporale e quantitativa a quella interiore e della qualità della preghiera. L'espressione "senza interruzione" mutava e diventava "sincerità" o "senza distrazioni". Dopo di questo, il ritorno alle dimensioni esterne era possibile, ma prima si doveva stabilire il fondamento. Notiamo gli elementi principali di questa concezione che si collega con tutto il sistema ascetico o antropologico dell'Autore.
In primo luogo si può dire che, secondo Cassiano, il compimento del precetto dell'Apostolo: "Sine intermissione orate", è strettamente legato con il combattimento contro gli otto vizi, e in seguito con la purezza del cuore. Direttamente cita 1 Ts 5, 17 quando parla nelle Istituzioni sull'ira, ponendo la domanda: come è possibile, in genere, pregare, se nel cuore si porta ira? E in seguito: come dunque, avendo l'ira si può compiere il precetto dell'Apostolo sulla preghiera perpetua?
Dice: "E allora come potremmo (...) - se siamo in preda all'ira - di offrire a Dio le nostre orazioni? A coloro, ai quali l'Apostolo rivolge questo precetto: 'Pregate senza interruzione', comanda pure di 'pregare in ogni luogo, elevando mani pure, senza collera e senza contese'"[118].
Qui abbiamo a che fare con un'unione di tre elementi: (1) una dimensione temporale ("sine intermissione") che proviene da 1 Ts 5, 17; (2) una dimensione spaziale ("in omni loco") da 1 Tm 2, 8; (3) ed una dimensione interiore basata sulla catena che esce da 1 Tm 2, 8 che tratta delle "puras manus sine ira" che chiaramente si unisce con "puritas cordis". Poiché dietro al pensiero di Cassiano, vi è la presupposizione, che nella preghiera la cosa più importante è il nostro cuore, e ciò che sta nel cuore è offerto a Dio. E se vi fosse l'ira nel cuore (o qualsiasi altro vizio), paradossalmente si offrirebbe a Dio proprio questo durante il tempo della preghiera. Non pregando così neppure nel tempo destinato alla preghiera, non si prega mai. La preghiera e la vita virtuosa sono infatti unite. L'Autore dice: "Ne deriva perciò questo risultato, o di non pregare mai, mantenendo nell'animo nostro un tale veleno in contrasto con il comando dell'Apostolo e del Vangelo che c'impone di pregare sempre e in ogni luogo. Oppure, ingannando noi stessi, presumere di presentare le nostre preghiere nonostante il suo divieto, poiché, in tal caso, dovremmo riconoscere di non offrire a Dio delle preghiere, ma unicamente l'alterigia ostinata, dovuta a uno spirito di ribellione[119].
Il secondo aspetto che ritorna con 1 Ts 5,17 si potrebbe chiamare "la concentrazione" o con la forma di domanda: "come pregare senza distrazioni?" Cassiano parla per esempio del pensiero o del cuore distratto ("vaga mens", "evagatio cordis"[120]) ed a questi contrappone un'anima stabile ("animae stabile firmitatem"[121]). Spesso dunque ritorna la domanda (o il problema): "Che cosa si deve fare per fermare il pensiero su Dio?"[122] Infine dunque, nella prospettiva del pensiero di Cassiano, la preghiera continua si identifica con la preghiera pura.
Ma i due aspetti vengono distinti. Il primo si colloca nel contesto liturgico o nel tempo stabilito per la preghiera. La domanda che ora viene è questa: "Come durante il tempo stabilito e dedicato unicamente a Dio, l'uomo può essere anche totalmente e unicamente per Lui?"[123] Perché - secondo Cassiano - non prega mai colui che si inginocchia ma è distratto[124]. La risposta che veniva data sottolineava il fatto (fuori della necessità della vita virtuosa già sottolineata) che durante la preghiera viene fuori tutto ciò che ci preocuppava prima[125]. Finalmente tutto lo sforzo del monaco si dovrebbe concentrare sul fatto della unità della vita, per sottoporre tutto alla preghiera[126].
Il secondo aspetto metteva in rilievo la domanda: "Come si può prolungare questo stato senza fine per compiere perfettamente il precetto dell'Apostolo?" Cassiano propone al lettore un ideale irraggiungibile[127]. Parla della dimensione perpetua della preghiera pura. Essa si caratterizza come una tranquillità della mente e scomparsa di ogni passione carnale, quando il cuore è unicamente rivolto al Bene altissimo[128]. Questo è uno stato, in cui scompaiono tutti i desideri e le immagini terrene; l'uomo diventa simile agli angeli ("Hac enim puritate, si dici potest, sensu mentis absorto ac de terreno situ ad spiritalem atque angelicam similitudinem reformato"[129]). Così il precetto dell'Apostolo "sine intermissione orate" sarà compiuto perfettamente. La preghiera diventerà non soltanto pura e sincera, ma questo stato spirituale abbraccerà tutto l'essere umano e le sue azioni ("quidquid in se receperit, quidquid tractaverit, quidquid egerit, purissima ac sincerissima erit oratio"[130]). Qui certamente abbiamo a che fare con un ideale che raggiunge la realtà escatologica, almeno nel modo nel quale la comprendeva il monaco di Marsiglia. Finalmente la preghiera ininterrotta, la preghiera pura, la purezza del cuore e la contemplazione si riunivano.
In conclusione è da notare che Cassiano aveva un grande interesse per 1 Ts 5, 17 che è uno dei brani paolini più usati nei suoi scritti monastici. Lo considerava nella situazione concreta di una comunità di monaci con un certo isolamento dal mondo e un ritmo della giornata dove vi erano ore fissate per la preghiera. E in questo caso pregare senza interruzione significava per lui essere senza altre preoccupazioni o distrazioni durante questo tempo determinato. D'altra parte, l'Autore era cosciente che per compiere questo precetto anche la vita doveva essere virtuosa. L'ideale della preghiera perpetua si legava con la sua concezione della purezza del cuore e alla fine con quella della preghiera pura. La dimensione temporale, indicata dall'Apostolo era congiunta con l'aspetto morale e possiamo dire intellettuale (concentrazione).
LA PRIMA E LA SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI E IL PROBLEMA DEL LAVORO
a) Osservazioni generali
Qui ci interessano i due capitoli delle due lettere ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 9-12 e 2 Ts 3, 6-15) che, fra gli altri testi scritturistici, stanno alla base delle spiegazioni di Cassiano riguardo al lavoro. Si nota che quasi tutto il decimo libro, o almeno la sua parte centrale delle Istituzioni, dedicato allo spirito dell'accidia, ha la forma di un "commento" a questi versetti[131]. I versetti di questi capitoli paolini (2 Ts 3, 8 e 10) sono citati anche nel primo libro delle Istituzioni[132] e 1 Ts 4, 9-12 nel libro secondo di questa opera[133]. Ma rimangono ancora gli usi marginali in comparazione con il libro decimo che resta, senza dubbio, centrale per il tema del lavoro.
In seguito, occorre notare che questi brani dell'Apostolo non sono presenti nelle prime due parti delle Conferenze, cioè dal primo al diciottesimo libro. Sembra che Cassiano abbia bene ripensato la struttura di tutta la sua opera così che i temi considerati nelle Istituzioni non sono ripetuti né nella prima parte delle Conferenze (i libri da 1 a 10) che offrono, secondo l'Autore, temi più spirituali e si occupano dell'uomo interiore, né nella seconda parte ( i libri da 11 a 17) che completa la prima. Invece nella terza parte che sembra essere un'aggiunta alle Istituzioni e alle prime due parti delle Conferenze, i versetti di 2 Ts 3, 9-10 e il tema del lavoro ritornano tre volte[134]. Insomma, riguardo al tema del lavoro e all'uso delle due lettere ai Tessalonicesi, abbiamo a che fare con un grande commento nel decimo libro delle Istituzioni e con cinque brani dispersi negli altri posti.
b) Il libro decimo delle Istituzioni
Si deve sottolineare che un passo del libro decimo delle Istituzioni è, dal punto di vista letterale, unico nelle opere monastiche di Cassiano. Come in nessun altro luogo, l'Autore offre al lettore un vero e lungo "commento", arricchiendolo con tanti giochi retorici che rendono piacevole anche la lettura assai lunga. Il commentatore stesso rivela la sua arte letteraria.
Il brano qui considerato si trova fra una descrizione assai figurativa, psicologica e umoristica dell'accidia (i capitoli da 1 a 6) e le quattro narrazioni o esempi che toccano il tema della vita dei monaci aggiungendovi un po' di colore (i capitoli da 22 a 25). Tutto il resto è occupato dal "commento" che possiede una struttura chiara. Essa è stata fissata dai versetti della Scrittura presi in considerazione. Cassiano commenta 1 Ts 4, 9-12[135]. Segue un commento a 2 Ts 3, 6-14[136], interrotto da un riferimento a 2 Cor 10, 2 e 8 (i brani sono considerati come se fossero scritti ai Tessalonicesi[137]). In seguito appaiono, come una conferma, i riferimenti a At 20, 33-35[138]. L'Autore finisce usando anche 1 Cor 1, 5, Pr 25, 21, Rm 13, 14, 1 Ts 5, 8, Iz 52, 1, Giov 6, 27 e 34, Pr 31, 25, 15, 19 e 13, 4[139] con i versetti di Paolo, già considerati, da 1 Ts 4, 11-12 e da 2 Ts 3, 6[140]. Tutto l'insieme sembra essere composto bene, secondo il filo rosso fissato dai due capitoli delle due lettere ai Tessalonicesi.
I versetti di Paolo sono stati legati l'uno con l'altro in modo molto artificioso. Per esempio, un argomento per iniziare tutto il discorso su Paolo proviene dal "fatto" che - secondo Cassiano - l'Apostolo, in seguito ad un'ispirazione dello Spirito Santo, ha previsto le future malizie dei monaci o ha osservato la diffusione del vizio dell'accidia già presente nella sua epoca[141]. Dopo si deve sottolineare tutto il paragone, molto raffinato, fra Paolo e un medico che conosce bene il paziente; e fra la malatia e il modo di sanare[142] che viene strettamente legato con l'immagine di un insegnante prudente ma anche esigente[143]. Il paragone ritorna come l'eco e sta sempre presente dietro il testo, ispirando l'immaginazione del lettore durante la lettura. Sono presenti anche le domande retoriche che vogliono mettere in rilievo la psicologia di Paolo[144] e i frammenti nei quali Giovanni Cassiano si medesima in Paolo facendo propria la sua posizione, i suoi sentimenti, i suoi problemi e pensieri[145]. Non mancano certamente cose esagerate, ma finalmente tutto è molto armonioso e usato per lo scopo principale: il problema del lavoro. Voglio però lasciare cadere un'analisi soltanto letterale, che sicuramente sarebbe interessante e fruttuosa, e cercare soprattutto la risposta alle domande: "Quale realtà stava dietro queste pagine? Perché tutta questa retorica?" Sembra che gli altri tre testi di Cassiano, legati con i capitoli dalle lettere ai Tessalonicesi di san Paolo qui considerati, possono offrire qualche risposta.
La prima è legata a 1 Ts 4, 9-12. Cassiano, elabora una introduzione commentando i versetti 9 e 10 della lettera che dicono: "Per quanto riguarda la carità fraterna non avete bisogno che io ve lo scriva, perché avete imparato da Dio stesso ad amarvi gli uni gli altri. E' appunto quello che fate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia". Con questa citazione, l'Autore delle Istituzioni vuole dire che in questa comunità tutto andava bene, però vi erano anche alcune mancanze che Paolo voleva correggere prudentemente[146]. In seguito Cassiano elenca - come se lo avesse fatto l'Apostolo - cinque mancanze, dividendo gli altri due versetti della lettera in cinque parti e mettendo sotto ciascuna un "commento" parenetico. Il testo di Cassiano segue precisamente l'ordine completo del testo paolino.
E così la frase scritturistica: "cercate con ogni premura di vivere nella pace" (1 Ts 4,11), viene commentata da Cassiano nel senso che si deve restare nella propria cella e non recare ad altri le proprie inquietudini o pronunziare maledizioni "che sogliono essere provocate dalle bramosie arbitrarie e insodisfatte di quanti vivono nell'ozio"[147].
La frase: "occupatevi ciascuno dei vostri affari" (1 Ts 4, 11), viene commentata da Cassiano: "non cercate di indagare, con la vostra curiosità, la vita del mondo; se andrete a spiare gli usi e i costumi di quelli che conducono una vita diversa della vostra, non vi occuperete della vostra correzione e dall'acquisto delle virtù; ma piuttosto della denigrazione dei vostri fratelli"[148].
Si vede il problema contro cui doveva combattere Cassiano scrivendo ai monaci della Provenza: non volevano restare nelle loro celle e lavorare. Invece andavano in giro, anche fuori del monastero, parlando o chiacchierando di cose mondane e portando fuori i problemi della comunità.
In seguito Cassiano inserisce la frase paolina: "lavorate con le vostre mani, come vi abbiamo prescritto" (1 Ts 4, 11), sottolineando ancora una volta che nell'uomo che non lavora con le proprie mani nasce l'inquietudine che si esprime nei modi già sottolineati[149]. Ora con la frase paolina "comportatevi onestamente verso coloro che sono fuori" (1 Ts 4, 12) viene aggiunto un elemento nuovo: lo scandalo o la mancanza di rispetto e di dignità agli occhi degli altri. L'Autore dice: "Non riuscirebbe mai a comportarsi esemplarmente, nemmeno con quelli che vivono nel mondo (saeculi homines), uno che non fosse contento di restare dentro le pareti della propria cella (claustris cellae) e non attendesse al lavoro delle proprie mani"[150]. Cassiano aggiunge una descrizione figurativa e satirica dell'uomo che così si comporta[151].
Il commento alla frase paolina: "non desiderate le cose di nessuno" (1 Ts 4, 12), sottolinea, secondo Cassiano, ancora la necessità del lavoro senza il quale non c'è pace. L'Autore si rivolge alla virtù della povertà. Dice che ci si deve accontentare di procurarsi soltanto il vitto necessario per ogni giorno[152]. Si vede che, fra i monaci a cui si rivolgeva Cassiano, il lavoro portava problemi abbastanza grandi e da qui nascevano forse i conflitti con la gente esterna. Gli altri testi legati con i capitoli di 1 e 2 Ts offrono qualche risposta e permettono anche di scoprire le cause di questo stato.
Cassiano passa a 2 Ts 3, 6-15 e la commenta versetto dopo versetto in modo tale che al centro pone la persona dell'Apostolo, il suo esempio e il suo insegnamento. L'Apostolo, secondo lui, come predicatore del Vangelo poteva, riferendosi alla frase di Mt 10, 10 "L'operaio ha diritto al suo nutrimento", non lavorare ed essere a carico dei Tessalonicesi[153]. Cassiano domanda: "Mentre dunque quel predicatore del Vangelo, anche nel pieno svolgimento di una missione così sublime e così spirituale, non presumeva di poter pretendere per sé il nutrimento gratuito, pur potendosi valere del suggerimento del Signore, che cosa potremo fare noi, ai quali non solo non è stato affidato alcun incarico di predicazione, ma neppure alcun impegno al di fuori della sola cura dell'anima nostra? Con quale fiducia oseremo, con le mani inerti, mangiare quel pane...?"[154]. Le parole sono forti e dicono che la vita dei monaci, riguardo quella dei Apostoli, non è necessariamente la più perfetta. Ma lasciamo il problema da parte e ritorniamo al "commento".
Cassiano sottolinea ancora gli altri aspetti legati al lavoro di Paolo e tocca i problemi dei monaci. Commenta le parole: "noi non abbiamo nemmeno mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma notte e giorno, con fatica e con pena, lavorammo per non essere a carico di alcuno di voi" ( 2 Ts 3, 8) sottolinea due fatti. Paolo non aveva nessun'altra fonte per sostenersi che il suo lavoro. Non lavorava fisicamente per piacere o per avere un po' di movimento fisico ma perché aveva bisogno, per sé e per i suoi compagni (Silvano e Timoteo), di lavoro per guadagnare il cibo[155].
D'altra parte Cassiano a questa sua opinione ne contrappone un'altra. Sulla base del versetto seguente di Paolo: "non perché non ne avessimo il diritto, ma per offrirvi in noi stessi un esempio da imitare" (1 Ts 3, 9), dice che l'Apostolo lavorava così instancabilmente per dare ai Tessalonicesi un esempio virtuoso affinché potessero seguirlo[156]. Poi commenta i versetti seguenti (1 Ts 3, 10-15) e sottolinea che l'uomo senza lavoro cade in tutti i vizi. Il lavoro invece spinge alla vita virtuosa. Si domanda, dunque, che cosa e come si deve fare con un fratello pigro[157]. Ma più importante per il nostro scopo sembra il frammento seguente dove, sulla base di Ef 4, 28 e di At 20, 33-35, si sottolinea che l'Apostolo aveva una cura speciale per gli altri, anche se egli solo era povero. Il suo atteggiamento si esprimeva nella sua posizione e nell'insegnamento[158].
Si può allora dire che sulla base della persona di Paolo, Giovanni Cassiano voleva sottolineare ai monaci a lui contemporanei ancora i tre aspetti del lavoro: (1) si dovrebbe lavorare anche se ci fossero altre fonti per vivere; (2) il lavoro fisico non è soltanto per il riposo; (3) si deve fare l'elemosina ai più bisognosi anche se si ha poco[159]. Ma il problema diventa ancora più chiaro se si aprono le Conferenze, dove tutti i brani si riferiscono a 2 Ts 3, 8.
c) Le Conferenze e il contesto sociale
Nella conferenza diciottesima sulle tre specie dei monaci, Cassiano presenta l'abate Piamo in Diolcos. Egli da parte sua si riferisce alla storia legata all'abate Serapione. Il contesto è significativo. L'Autore parla prima degli eremiti, cenobiti e sarabaiti. Poi presenta la quarta specie, cioè quelli che hanno lasciato il cenobio e vivono "come" eremiti pensando che sia una dimensione più elevata[160]. L'abate Piamo spiega quale è la differenza fra cenobio e monastero e immediatamente dopo questa risposta viene introdotta una storia legata all'abate Serapione la quale segna una parentesi nel discorso[161]. Dopo viene considerato un altro problema: quello della pazienza[162]. Si trattava dunque, nel discorso dell'abate Piamo, prima di un fatto della vita di Serapione che riguarda la venuta di un monaco che con il suo vestito, con le sue parole e con il suo comportamento sottolinea la sua cosiddetta "umiltà"[163]. Ma dopo il pasto l'abate Serapione inizia un altro discorso, spirituale, riferendosi a quest'uomo e ammonendolo.
Fino al questo momento la narrazione di Cassiano corrisponde a quella delle Apophtegmata[164]. L'ammonimento di Serapione a partire da questa raccolta dei detti dice: "Figlio, se vuoi avere giovamento per la tua vita spirituale, persevera nella tua cella, bada a te stesso e al tuo lavoro manuale. Perché l'uscire non ti porta altrettanta utilità quanta il rimanere in cella"[165]. Cassiano invece mette nella bocca di questo Padre una frase più lunga: "Sei giovane e robusto (...) non andare a zonzo senza far nulla; scattante in cella, come vuole la regola degli Anziani, e guadagnati la vita col tuo lavoro, invece di farti mantenere dal lavoro e dalla generosità degli altri"[166]. E aggiunge una frase riferendosi a Paolo: "Fu questo il rimprovero temuto dall'apostolo Paolo. Pur avendo diritto al sostentamento da parte dei fedeli, perché era operaio del Vangelo, vuole l'Apostolo lavorare giorno e notte per procurare il pane quotidiano a sé e a coloro che, impegnati a lavorare con lui, non avevano la possibilità di dedicarsi a qualche altro lavoro (cf. 2 Ts 3, 8; At 20, 34)"[167].
Si vede che ambedue i testi sottolineano la necessità di restare nella cella, invece di girare senza motivo. Potevano essere dette contro i girovaghi o contro i monaci non stabili che troppo spesso lasciavano le loro celle. Ma il contesto dell'apophthegma si concentra sull'umiltà e sull'efficacia spirituale. Il problema del lavoro è stato messo accanto nella piccola frase: "bada a te steso e al tuo lavoro manuale". Invece Cassiano lascia cadere la frase "bada te stesso" e sviluppa il problema del guadagnare la vita con il lavoro, per contrapporsi al fatto di essere mantenuto dal lavoro degli altri o dalla loro generosità. Da questo si vede come, per Cassiano, era importante il problema del lavoro e quale ruolo nella sua argomentazione giocava san Paolo. Qui anche appare il problema che sembra essere cruciale. Esso non era legato ai sarabaiti, ma piuttosto ai propri monaci. Essi erano probabilmente abbastanza ricchi e non avevano bisogno di lavorare con le proprie mani. Poiché non potevano sempre meditare nelle celle, giravano fuori. Un altro esempio dalle Conferenze chiarisce ancora di più questo aspetto.
Nell'ultima conferenza, Germano pone il problema: "Mi pare però che non sarebbe un ostacolo al nostro proposito l'ipotesi di attendere unicamente alla lettura e alla preghiera, dopo essere stati liberati dalle preoccupazioni del cibo per intervento dei nostri familiari. Il lavoro che qui esercitiamo è per noi una distrazione; se fosse soppresso, potremmo dedicarci con più intensità ai soli esercizi spirituali"[168]. L'abate Abramo risponde utilizzando le parole di Antonio che fra gli altri argomenti si riferiva a At 20, 34 e di 2 Ts 3, 7-9. Diceva: "Anch'io avrei potuto usufruire dell'assistenza dei miei genitori, ma ho preferito a tutte le ricchezze questa nudità in cui mi vedi. Invece di appoggiarmi sull'assistenza dei miei genitori ho preferito guadagnare il cibo quotidiano per il corpo, col sudore della mia fronte"[169].
Sembra essere chiaro il problema e la didattica che praticava Cassiano. I monaci, ai quali si riferiva, erano ricchi e possedevano propri benefici. Non avevano bisogno di lavorare. Di qui nasceva il problema sul livello della vita comunitaria e sul livello spirituale. D'altra parte, non erano capaci o pronti a dare elemosine. Tutto questo, sulla base delle informazioni che abbiamo sul monachesimo della Provenza, che accoglieva nella sua prima fase soprattutto i nobili delle famiglie romane[170], sembra possibile. E in questo contesto Cassiano, con i testi di san Paolo alla mano e come erede della tradizione egiziana, appare non soltanto come un fondatore o codificatore ma come il riformatore o, meglio, l'insegnante.
d) Il messalianismo[171]
Però un contesto sociale non esaurisce totalmente il tema del lavoro preso insieme con i testi paolini nelle opere di questo monaco. Egli scriveva le sue opere tenendo conto delle controversie con il messalianismo[172]. Fra i punti legati a questo movimento e al nostro tema sono da notare al primo posto i seguenti: i messaliani rifiutavano il lavoro[173] e non si preoccupavano dei poveri[174]; non amavano Paolo e frequentemente gli contrapponevano i Vangeli[175]; Cassiano ha potuto incontrare questa corrente o ad Antiochia[176] o a Costantinopoli[177]. Conosceva probabilmente anche i loro scritti[178]. Con una grande probabilità, si suppone che dovesse affrontare queste tendenze anche in Provenza, polemizzando con loro nei suoi scritti monastici[179]. Il tema, certamente, potrebbe essere elaborato pienamente in un altro lavoro, ma già qui e nella prospettiva qui proposta (anche se necessariamente limitata) sono da notare delle cose importanti.
Si capisce meglio perché, in tutti i frammenti appena presentati, Giovanni Cassiano, in confronto con le sue fonti, usa con forza i testi paolini. E' da capire subito anche perché nel libro dedicato all'accidia si trova il così grande commento basato sulle due lettere ai Tessalonicesi. Si capisce perché alcuni brani evangelici vengono citati o proprio commentati con i testi paolini[180]. Infine anche si capiscono le domande di Germano sulla possibilità di ricevere un guadagno dagli altri per dedicarsi totalmente alla preghiera. Essa sembra essere usata proprio in questo contesto polemico[181].
Voglio mostrare alla fine che la soluzione non era così facile anche dagli altri punti di vista. Cassiano - attraverso le parole dell'abate Abramo le quali citavano l'abate Antonio - dice, nel contesto già analizzato, che vorrebbe forse praticare con piacere una meditazione senza sosta sulla Scrittura se non ci fosse dato come migliore l'esempio degli Apostoli e degli Anziani[182]. E in un altro luogo, riferendosi a 2 Ts 3, 8 e all'esempio di Paolo dice:
"Perfino l'apostolo Paolo, che sorpassò coi suoi dolori le fatiche di tutti i santi, poté giungere a tanta perfezione (cioè possedere immutabilmente il sommo Bene - nota MB). Dico ciò senza timore di esagerare, perché lo stesso Apostolo fa questa protesta dinanzi ai suoi discepoli, nei libro degli Atti: 'Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani' (At 20, 34). Scrivendo ai Tessalonicesi afferma di aver 'lavorato notte e giorno con fatica e pena' (2 Ts 3, 8). E' vero che da questa condotta gli derivarono tesori di meriti; l'anima sua però - anche se sublime santità - non poteva fare a meno di essere qualche volta separata dalla celeste 'teoria', a causa delle occupazioni terrestri. L'Apostolo riconosce da un lato i frutti preziosissimi che ottiene dalla vita attiva; dall'altro considera in cuor suo il bene della contemplazione[183].
In questo caso Cassiano si presenta come uno che desiderava contemplare o pregare senza sosta, ma i comandamenti e l'insegnamento di Paolo e dei monaci egiziani lo spingevano a un'altra visione. Qui abbiamo a che fare con una tensione fra il messalianismo e l'ortodossia o ancora più profondamente fra il desiderio della contemplazione e lo scandalo della croce. La teologia della vita monastica di Cassiano stava proprio nel punto cruciale di questa tensione che da una parte esprimeva lo spirito umano permanente, dall'altra si collocava in una realtà storica e concreta (i ricchi monaci o il messalianismo). E in questa situazione l'Autore combatteva contro il suo ambiente o forse anche contro i suoi propri desideri. Con l'aiuto della Scrittura, o proprio con san Paolo, cercava di darne una soluzione equilibrata.
1 COR 13 E L'UTILIZZAZIONE CHE NE FA CASSIANO
Ora vogliamo fermarci più attentamente sul capitolo tredicesimo di 1 Cor, per vedere come e perché l'Autore delle Conferenze lo usa. La causa propria per la scelta di questo brano di san Paolo consiste soprattutto nel fatto che 1 Cor è la lettera più usata da Cassiano. L'uso del capitolo tredicesimo di questa lettera, abbastanza piccolo in sé e denso di significato, è abbastanza diffuso in Cassiano. Sembra anche che, oltre alle osservazioni statistiche, si possa - con uno studio più attento - riscoprire la sua importanza all'interno del suo "corpus monasticum" e penetrare ancor più nel suo pensiero.
a) Le osservazioni esterne
Prima di tutto si devono notare i dati esterni che hanno la loro importanza. Le citazioni esplicite da 1 Cor 13 non sono presenti, né nelle Istituzioni, né nella terza parte delle Conferenze[184]. Nelle due altre parti delle Conferenze, il capitolo è citato in: 1, 3, 7, 8, 11, 15, 16 e 17. Il più ricco di citazioni è il libro undicesimo, nel quale ci sono cinque brani integri nei quali si trovano i riferimenti a 1 Cor 13, 1-3.5.7-8.13[185]. Segue il libro primo che nelle sue due parti tratta di 1 Cor 13, 3-5.8[186] e il libro terzo con commento a 1 Cor 13, 3-5.7[187]. I versetti 1-4 e 8 appaiono ancora due volte, ma in modo marginale, nella conferenza quindicesima[188] e i versetti 5 e 7 nella conferenza seguente[189]. Una volta l'inclusione appare ai versetti 4 e 7 nella conferenza settima[190], al versetto 8 nella conferenza seguente[191], e al versetto 5 nella conferenza diciassettesima[192]. Insomma, nelle opere di Cassiano, ci sono quindici brani, collocati negli otto libri delle prime due parti delle Conferenze, si trovano le citazioni esplicite da 1 Cor 13, 1-5, 7-8, 13.
Si suppone, che i dodici libri delle Istituzioni si occupino delle cose esterne e introduttive dal punto di vista pratico della vita monastica. La terza parte delle Conferenze, invece, è una aggiunta o una conseguenza delle prime due[193]. Si vede anche che 1 Cor 13 appare nella parte più importante dal punto di vista dottrinale, dalla quale dipendono tutte le altre parti dell'opera. Si nota ancora che la maggior parte dei testi legati a 1 Cor 13 si trova nella prima e nella terza conferenza. Esse sembrano essere completate dalla conferenza undicesima[194]. Si può dire allora che ci si imbatte nel tema della carità, fondato sui testi paolini, nel nucleo della teologia della vita monastica di Cassiano. Ma prima di approfondire questo tema in maniera più sviluppata, facciamo qualche osservazione sul testo stesso di 1 Cor 13 usato qui da Cassiano.
Dei tredici versetti di 1 Cor 13, nelle opere di Cassiano ne sono citati soltanto otto in modo esplicito. Si nota una mancanza assoluta dei versetti 6 e 9-12. Questi otto versetti (1-5. 7-8. 13), nei frammenti delle opere di Cassiano appena presentati, ritornano trenta volte in vari modi. Il versetto ottavo - sette volte; il versetto terzo - sei volte; il versetto quinto - cinque volte; il versetto settimo - quattro volte; il versetto quarto - tre volte; i versetti primo e secondo due volte; e il versetto tredicesimo - una volta.
Dal punto di vista testuale sembra che Cassiano possedesse una versione simile a quella della Volgata. Però ci sono da notare alcune osservazioni per i rispettivi versetti. Il versetto primo: "Si linguis hominum loquar, et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum uelut aes sonans, aut cymbalum tinniens" non è mai presente in forma completa. Appare due volte[195] ed è sempre legato ai versetti 2 e 3 dello stesso capitolo.
La stessa cosa vale per il versetto secondo: "Et si habuero prophetiam, et nouerim mysteria omnia, et omnem scientiam: et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam, charitatem autem non habuero, nihil sum". Esso viene citato di seguito con il versetto precedente per due volte. La prima omette le ultime due frasi a causa di una simile espressione alla fine del versetto terzo e la seconda cambia le parole e l'ordine di successione[196].
Il versetto terzo: "Et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas, et si tradidero corpus meum ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil mihi prodest" viene citato quasi "ad litteram" tre volte (manca soltanto "si" prima di "traduero")[197], parzialmente due volte come "eco" della citazione appena usata e senza cambiamenti verbali[198]. Una volta ancora nel modo totalmente mutato, ma fedele riguardo al senso di tutta la frase[199].
Il versetto quarto: "Charitas patiens est, benigna est: Charitas non aemulatur, non agit perperam, non inflatur" è citato una volta parzialmente in un frammento con l'inizio cambiato[200]. Una volta ancora, invece di dire "patiens est", Cassiano dice "omnia patitur"[201], ma il riferimento è chiaro a causa del contesto nel quale viene usato. E una volta è mescolato ai versetti 5 e 6, con un ordine diverso[202].
Il versetto quinto: "non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum" non è mai citato completamente. Per due volte appare in modo abbreviato, con una risonanza e l'ordine delle parole che seguono è mescolato insieme con il versetto quarto[203]. Soltanto la frase "non quaerit quae sua sunt" viene citata due volte[204]. Una volta appaiono alcune parole del quinto versetto insieme con altre espressioni tratte dai versetti 4 e 7 di 1 Cor 13[205].
Dal versetto settimo: "omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet" vengono citate in vari contesti soltanto due espressioni: "omnia suffert, omnia sustinet"[206].
Al versetto ottavo: "Charitas numquam excidit: siue prophetiae evacuabuntur, siue linguae cessabunt, siue scientia destruetur", Cassiano si riferisce più frequentemente. Lo cita una volta completamente anche se cambia l'ordine a causa della spiegazione che ne dà[207]. Due volte appare l'espressione "numquam excidit"[208], la quale in seguito viene cambiata tre volte. Accanto alle espressioni presentate sopra, negli stessi libri si trovano altre: "caritas quae nescit cadere"[209], "caritas numquid cadit"[210], "caritas quae numquid cadit"[211] che sono rese possibili dal testo greco ("he agape oudepote piptei"). Cassiano le usa quando meglio corrispondono ai suoi bisogni. Notiamo che a questa frase e alla frase del versetto tredicesimo ("nunc manet...charitas") si legano anche due espressioni usate dal nostro Autore: "caritas uero perpetuo permansura"[212] e "caritas...inmobilis permanseret"[213].
Il versetto tredicesimo: "Nunc autem manet, fides, spes, charitas: tria haec, maior autem horum est charitas", è citato in frammento e soltanto una volta[214].
In conclusione di queste osservazioni, si può dire, supponendo che il testo da noi posseduto oggi sia stato edito criticamente e che non porti tante interpolazioni degli scribi e che sia corrispondente all'originale, che Cassiano nel caso di 1 Cor 13 non curava tanto il suono verbale del testo. Si può anche dire con certezza che citava questo capitolo a memoria.
b) I testi secondari
Parlando dei testi secondari si pensa ai setti brani dalle conferenze 7, 8, 15, 16 e 17, dove si osserva l'uso di 1 Cor 13 da parte di Cassiano. Con la parola "secondari" si vuole dire che il testo paolino considerato appare soltanto come un'allusione. Nonostante questo si possono mettere in rilievo alcune caratteristiche.
Nella prima parte della settima conferenza Cassiano considera il problema dell'instabilità dei pensieri e dell'anima. Per sostenere l'argomento della lotta contro questa debolezza, si serve dell'immagine del centurione presente in Mt 8, 5-13. Di qui costruisce una catena di citazioni bibliche. Passa in seguito a Mosè che ha stabilito i centurioni per il popolo di Dio (Es 18,21) e dopo ai testi dell'Apostolo legati con il tema del combattimento spirituale (1 Cor 10,4-6)[215]. Termina sulla base di Ef 6, 16-17 e della 1 Ts 5, 8, con una considerazione sulle tre virtù teologali: la fede, la carità e la speranza. Qui appare l'allusione a 1 Cor 13, 4 e 7, come un testo complementare a 1 Ts 5, 8 che parla del bisogno di rivestire l'abito della fede e della carità[216]. La carità che copre tutto, è paziente e sopporta tutto, serve nel combattimento contro le passioni e le tentazioni del diavolo. Si nota che il brano paolino è stato usato marginalmente e in modo retorico. Non si può dire niente di più.
Al termine della conferenza ottava l'Autore formula una preghiera nella quale Abba Serenus domanda il dono del forte timore di Dio e della carità. Essa è stabile e non viene a cadere (1 Cor 13, 8) e nel combattimento spirituale appare come un mezzo indispensabile[217]. Questi due passi, benché si riferiscano a 1 Cor 13 molto marginalmente, offrono un accenno importante. Il nucleo del combattimento spirituale, infatti, è strettamente legato alla carità. Questo è chiaro perché, secondo Giovanni Cassiano, la carità si lega alla purezza del cuore. Il sistema ascetico dell'Autore è logico e coerente e sembra basato sui testi biblici paolini fra i quali un'importanza privilegiata e fondamentale appartiene a 1 Cor 13.
Nella conferenza quindicesima il capitolo tredicesimo di 1 Cor non viene mai citato in modo esplicito. Però le tre allusioni ai versetti 1-4 e 8[218], considerati nel contesto e nella struttura di tutta la conferenza, ci permettono di dire che sono collocati proprio nel centro della spiegazione di Cassiano.
L'argomento della conferenza è semplice. Secondo l'Autore i miracoli possono essere fatti da tutti gli uomini: dai santi e dai peccatori. Si può fare i miracoli e non essere salvato. Cristo insegnava a imitare la sua umiltà e la sua carità e non i suoi miracoli. Vale di più, infatti, cacciare i vizi dal proprio cuore che i demoni dalle anime degli altri, etc. Importa, dunque, la purezza del cuore, la perfezione nella scienza attuale o pratica, cioè la carità. Cassiano dice: "Questa è la scienza pratica che l'Apostolo chiama anche carità e c'insegna a preferirla - con l'autorità della sua parola - alle lingue degli uomini e degli angeli, alla fede che trasporta le montagne, ad ogni scienza e profezia, all'abbandono di tutti i beni, e finalmente anche alla gloria del martirio (cf. 1 Cor 13, 1-3)"[219]. Qualche riga dopo ancora ripete: "Ciò dimostra che il culmine della perfezione e della beatitudine non consiste nell'operare miracoli, ma nella purezza della carità. E c'è una ragione evidente. I miracoli sono destinati a cessare, mentre la carità non finirà mai (cf. 1 Cor 13, 8)"[220].
In questa frase si trova il nucleo di tutta la teologia dei carismi di Cassiano che è radicata ovviamente in san Paolo. Si potrebbe anche pensare che nella conferenza diciassettesima il testo paolino qui considerato potrebbe avere un ruolo più importante. Invece il ruolo primario è sostenuto dagli altri versetti della Scrittura (i Salmi, il vangelo di Giovanni, il Cantico). 1 Cor 13, 5 e 7 viene citata soltanto marginalmente nei passi nei quali l'Autore considera il problema dell'ira. Cassiano parla in modo figurativo degli uomini che pur essendo calmi esteriormente, nei contatti con gli altri o dentro di sé, sono pieni di ira. Essi parlano tranquillamente ma fanno nascere l'ira nei cuori degli altri e in questo modo sono lontani dalla carità dell'Apostolo "quae non quaerit quae sua sunt" (1 Cor 13, 5)[221]. Un po' più avanti, pur considerando il tema dell'ira, Cassiano costruisce un'immagine, dove si mescolano Rm 12, 19 e 1 Cor 13, 7 con la descrizione di un porto nel quale i fortunali del mare possono essere calmati. La carità che "omnia suffert, omnia sustinet" è proprio questo porto che calma ogni ira dentro di sé. L'uso di 1 Cor 13 in questa conferenza è soprattutto retorico e serve per legare l'amore alla pazienza e alla purezza del cuore.
Infine si deve notare la frase "caritas quae non quaerit quae sua sunt" (1 Cor 13, 5) usata nella conferenza diciassettesima. Cassiano parla della menzogna. Questa è in se stessa una cosa cattiva ma in alcuni casi, secondo l'Autore, tanti hanno deciso di usarla. La citazione di 1 Cor 13 appare nel contesto della spiegazione di Cassiano che cerca di rispondere alla domanda: come si può compiere questo brano dell'Apostolo se qualcuno cerca soltanto il proprio bene? Senza entrare in questa problematica morale, notiamo che 1 Cor 13, 5 è qui chiaramente inserita in tutto il sistema di Cassiano e serve soltanto come una affermazione retorica dell'argomento. Si nota anche che viene usata con altre tre citazioni di san Paolo, basandosi su alcune ripetizioni che aiutavano a legare i vari testi[222] - una "struttura" alquanto frequente per il nostro Autore.
c) I testi centrali
Parlando dei "testi centrali" si vogliono dire due cose. Prima di tutto vi sono testi fondamentali, testi di base, in Cassiano. Poi si deve dire che proprio in questi testi il capitolo tredicesimo di 1 Cor ha un ruolo importante o centrale. Infatti abbiamo a che fare con gli otto brani che provengono dalla conferenza prima, terza e undicesima. In essi si nota già ad un primo sguardo una forte presenza e un forte influsso dei versetti 1-5 e 7-8 del qui considerato capitolo paolino.
Soprattutto è da notare che nella conferenza undicesima che a mio parere è complementare alla prima conferenza[223], sino a quattro volte ritorna in modo diretto il versetto ottavo di 1 Cor 13! E su questo fatto si deve ora fare qualche osservazione.
L'Autore parla di due grandi temi. Il primo tratta delle tappe della vita spirituale nelle quali le pietre migliari sono costituite dalla fede o dal timore di Dio, dalla speranza e finalmente dalla carità (i capitoli 1-10). Il secondo spiega le differenze fra il timore e la carità (i capitoli 11-15). I diversi studiosi, vedendo l'importanza di questa conferenza in tutto il sistema di Cassiano, tentavano di trovare e indicare le sue fonti. E così Bossuet sottolineava l'influsso degli Stromata di Clemente d'Alessandria[224]. Con questa ipotesi polemizzava M. Olphe-Galliard contrapponendo l'ispirazione che potrebbe provenire da Ireneo e da Basilio[225]. Invece da parte sua e in prospettiva della sua opera, S. Marsili indicava che queste pagine di Cassiano hanno le loro radici in Origene e in Evagrio Pontico[226]. Però il problema sembra aperto e il nostro lavoro non vuole né risolverlo e neanche trattarlo. Si lascia da parte il problema delle fonti prendendo l'altra prospettiva, cioè quella nella quale appare 1 Cor 13. Rispetto a questa, si tenta di cercare un vero fondamento nella Fonte delle fonti, cioè nella Scrittura. Si nota che la presenza del versetto ottavo di 1 Cor 13 offre questa possibilità a causa della sua mancanza diretta nelle fonti indicate dagli studiosi appena citati.
La prima cosa vista dal lettore più attento, è questa: 1 Cor 13, 8 viene usata da Cassiano due volte nella prima parte della conferenza[227] e due volte nella seconda[228]. La cosa ancora più importanta, però, consiste nel fatto che fra le prime due citazioni e le due seguenti esiste una differenza di traduzione. Infatti, Cassiano nella prima parte usa riguardo alla carità l'espressione "numquam cadit" e nella seconda "numquam excidet" o "numquam excidit". L'espressione greca "oudepote piptei" permette il nascere delle espressioni latine sopra citate anche se si prediligeva la prima. Malgrado ciò, la Volgata (e forse tutta la tradizione latina e scritturistica) preferiva la seconda. A. Gazet nella sua edizione del secolo diciasettesimo (1616), riprodotta nella collana di Migne, osservava che: "cadit et excidit idem ualent, et hic Auctor non semper servat uerba Scripturae"[229]. Sembra però che qui il gioco fra le due parole sia voluto da Cassiano. Cambiando le parole latine, voleva sottolineare i due diversi aspetti.
Nel primo caso Cassiano dice: "Tre cose trattengono l'uomo dall'abbandonarsi al vizio: il timore dell'inferno o di altri castighi minacciati dalle leggi umane; la speranza e il desiderio del regno dei cieli; l'amore del bene in quanto bene, o amore delle virtù. Leggiamo infatti che il timore respinge il contagio del male: 'Il timore di Dio odia il male' (Pr 8, 32). Anche la speranza sbarra la via alle incursioni dei vizi: 'Coloro che sperano in Lui non peccheranno' (Sal 33, 23). L'amore, poi, non teme il danno del peccato, perché 'la carità non viene mai meno' (caritas numquam cadit - 1 Cor 13, 8), essa 'copre moltitudine dei peccati' (1 P 4, 8)"[230].
L'espressione "numquam cadit" che ci interessa sottolinea una dimensione morale. Le tre virtù, la fede o il timore di Dio, la speranza e la carità[231] sono considerate come "i mezzi" che separano dal peccato permettendo di giungere allo stato dal quale non si può cadere nei peccati. Esso è lo stato nel quale estingue la necessità della lotta[232]. Di nuovo, grazie a Paolo, il pensiero entra nello schema già conosciuto nel quale skopos, apatheia, la purezza del cuore e la carità si riuniscono. La carità "che non cade mai" vuole qui esprimere uno stato di perfezione che l'uomo può raggiungere, un ideale ascetico o morale. La carità si colloca a livello del soggetto.
Nel secondo caso Cassiano inizia a parlare della carità, che si distingue dalle due altre virtù teologali trascendendone tutti i carismi. Però lascia un aspetto soggettivo e va verso un argomento oggettivo, o, si potrebbe dire, ontologico, nel quale la carità è più perfetta e più alta di ogni cosa perché è eterna. Dice: "Vedete bene che niente esiste di più prezioso, di più perfetto, di più sublime, di più eterno - se così posso dire - della carità. 'Le profezie termineranno; le lingue cesseranno; la scienza finirà in nulla ( 1 Cor 13, 1-2). La carità non verrà mai meno (Caritas autem numquam excidet; 1 Cor 13, 8)'. Senza carità, i più alti carismi, e lo stesso martirio, non valgono a nulla"[233].
La carità, dunque, che "non avrà mai la fine" è considerata soprattutto qui come un bene immobile[234]. Il termine "excidet" corrisponde alla dimensione del tempo, diversamente che "cadit" che si riferisce maggiormente allo spazio o alla morale. Alla fine si osserva che le due dimensioni si uniscono e l'uomo può arrivare alla preghiera continua, così ricercata dall'Autore, alla perfezione o alla purezza del cuore[235]. Così l'analisi spiega il cambiamento delle parole nella Scrittura che viene usata nella lingua latina e d'altra parte apre gli occhi sulla teologia di Giovanni Cassiano.
Su questa base, si potrebbe dire dogmatica, seguendo successivamente le tracce del capitolo tredicesimo di 1 Cor, si giunge a conseguenze molto pratiche e non meno importanti per la teologia della vita monastica di Cassiano. Esse sono due: una è collocata nel campo d'azione ascetica o della rinuncia, l'altra si estende alla vita della comunità.
La prima si trova soprattutto nella prima conferenza e nella terza. Cassiano si riferisce a 1 Cor 13, 1-5 e 7. Il clima dell'enunciazione si precomprende e si potrebbe riassumerlo dicendo che non basta la rinuncia, se non è rafforzata dalla carità. Usando la lingua evagriana, si potrebbe dire che non basta la continenza ("enkrateia") se non ci sarà la carità ("agape")[236]. L'argomentazione, proprio grazie alle citazioni di san Paolo, permetteva di identificare lo scopo della vita monastica, cioè la purezza del cuore, con la carità. Ora voglio soltanto aggiungere qualche osservazione.
Già ad un primo sguardo ci appare l'aspetto polemico di queste pagine. Cassiano dice per esempio: "...la perfezione non si raggiunge d'un tratto, rinunciando alle ricchezze e disprezzando gli onori, senza prima essersi arricchiti di quelle carità della quale l'Apostolo descrive i molteplici aspetti"[237].
La citazione appare fra i versetti 3 e 4-5 del considerato capitolo di san Paolo. Nella terza conferenza, nel contesto di 1 Cor 13, 3-5, con una certa enfasi Cassiano dice: "San Paolo non vorebbe scritte queste parole se non avesse previsto in spirito che molti, dopo aver distribuito ai poveri le loro ricchezze, sarebbero rimasti impotenti a scalare la vette della perfezione evangelica e della carità"[238].
L'Autore poteva rivolgersi con queste parole ad alcuni concorrenti o ai monaci che potrebbero identificare la sola rinuncia, la sola continenza con il monachesimo cristiano e con la perfezione. Ma più probabilmente abbiamo qui a che fare con un insegnamento parenetico riguardo ai giovani monaci che nel primo fervore hanno lasciato tutte le cose di questo mondo ma non hanno raggiunto l'essenza. Si sono fermati ad livello della rinuncia esteriore, dell'uomo esteriore, senza entrare al livello della rinuncia interiore legato con l'uomo interiore, cioè non hanno liberato i loro cuori dai vizi.
L'Autore lega successivamente Mt 19, 21 con 1 Cor 13, 3-5 e dice: "la rinuncia e il martirio del mio corpo non mi recheranno alcun giovamento. E ciò perché l'uomo interiore rimane ancora schiavo degli antichi vizi. Inutilmente, nel fervore della mia conversione, avrò disprezzato la sostanza di questo mondo (la quale in se stessa non è né buona né cattiva ma indifferente), se poi non mi impegnerò a rigettare le nefaste ricchezze di un cuore vizioso e a praticare la carità"[239].
In seguito cita 1 Cor 13, 4-5 e 7. Una cosa è certa in tutto questo contesto: la presenza di questi brani dell'Apostolo introducevano nelle comunità monastiche o ascetiche un clima di carità o meglio più evangelico, che arricchiva un movimento che sottolineava talvolta troppo la sola rinuncia.
Qui appare la seconda dimensione alla quale conducono i versetti di 1 Cor 13 in Cassiano, cioè la vita comunitaria. Infatti la perfezione interiore viene esercitata nella vita comunitaria e tutte le caratteristiche proposte dall'Apostolo e considerate da Cassiano trovano il loro posto nell'esercizio e nell'esame dell'interno della vita comunitaria e nella relazione fraterna. Notiamo almeno una espressione, là dove Cassiano parla della pazienza del Signore ("dominicae longanimitatis"). Cita ancora a questo riguardo le parole di Gesù: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34); e dice: "E' invece un segno evidente di un'anima non ancora purificata dalla sozzura dei vizi, il fatto che le colpe del prossimo non trovino in essa compassione e misericordia, ma la rigida condanna d'un giudice. Come potrà ottenere la perfezione del cuore colui che manca di quell'elemento nel quale a detta dell'Apostolo, sta la perfezione di tutta la legge? 'Portate - dice Paolo - i pesi degli altri, così adempirete la legge di Cristo' (Gal 6, 2). Chi non possiede la virtù della carità che 'non si irrita, non s'inorgolisce, non pensa male, soffre tutto, sopporta tutto' ( 1 Cor 13, 4-7), come potrà essere perfetto?"[240]. Per avere una visione più ampia si dovrebbe leggere sotto questa luce la conferenza diciassettesima sull'amicizia, dove però non si trova 1 Cor 13.
Sembra che questa sia la prospettiva nella quale si dovrebbe leggere tutto Cassiano. La prima conferenza, la terza e l'undicesima stanno alla base di tutte le considerazioni seguenti o, come dice l'Autore stesso, "secondarie" delle Istituzioni e delle Conferenze. Qui viene proposta soltanto un'analisi dal punto di vista di un capitolo paolino che ci permette almeno anche di dire che lo scopo, l'intenzione di Giovanni Cassiano era andare al di là del problematicità del cenobio o dell'eremo o degli altri problemi, spesso presi tropo seriamente dai monaci. Alla fine ripetiamo, dunque, una frase che sembra importante e caratteristica: "Bisogna dunque esercitare le virtù secondarie - digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre Scritture - in subordinazione alla virtù principale, che è purezza del cuore o carità"[241].
CONCLUSIONE
Qui lo studio trova il suo termine. Ha anche la sua piccola storia che si osserva nella sua struttura. Lo sviluppo progredisce insieme con le ricerche, cambia e precisa sempre di più il tema, la prospettiva degli studi particolari e lo scopo.
I. Il primo capitolo è stato dedicato al problema generale che considerava l'uso della Bibbia nelle opere di Giovanni Cassiano. Il risultato ha mostrato una forte presenza dei testi di san Paolo. Fra questi prevale la presenza di 1 Cor e di Rm. I versetti delle lettere paoline che ritornano di più ( Ef 6,12; Col 3,5; 1 Ts 5,17; 2 Tm 2,5; 1 Cor 10,13 e 13,8) sottolineano soprattutto l'interesse parenetico-morale dell'Autore.
Le ricerche, su quale testo del corpus paulinum poteva appoggiarsi Giovanni Cassiano, hanno mostrato: (1) che il monaco di Marsiglia stimava abbastanza l'importanza della "lettera" nel testo ispirato per sviluppare dopo una giusta interpretazione; (2) che in certi casi si riferiva alle diverse versioni del testo greco cercando di stabilire il testo giusto; (3) che le versioni latine (la Vetus Latina, la versione della Volgata, le traduzioni di alcuni brani presenti in altre opere teologiche che Cassiano aveva a disposizione) talvolta usavano anche la versione migliore e la correggevano con il testo greco; (4) però, d'altra parte, egli non sempre era tanto pignolo, esigente e conseguente in questo campo; (5) citava spesso il testo a memoria; (6) l'atteggiamento più o meno attento verso il testo scritturistico dipendeva spesso dallo scopo principale per il quale usava nel casi concreti i testi paolini. Le analisi dedicate ad alcuni brani delle lettere dell'Apostolo fatte nel capitolo terzo dello studio, hanno confermato queste opinioni.
II. Nel capitolo secondo lo studio voleva mostrare come Cassiano vedeva Paolo stesso. Qui si cercava di trovare una indicazione che permettesse di stabilire una prospettiva nella quale lo studio successivo si sarebbe potuto sviluppare. Purtroppo i risultati non sono tanto abbondanti. E' stato soltanto stabilito che: (1) Giovanni Cassiano è al di là degli interessi storici, e stima soprattutto la prospettiva parenetico-moralista per la quale san Paolo e le sue lettere erano un soggetto di valori ottimi; (2) l'Apostolo era considerato come l'autorità docente e l'esempio della vita virtuosa; (3) da una parte la persona di Paolo è stata elevata a livello quasi ideale e irraggiungibile; (4) d'altra parte, a causa di alcuni suoi testi, egli stesso è rimasto molto umano e reale, perciò molto vicino alle esperienze di ciascuno; (5) probabilmente a causa di questa tensione fra i due estremi Paolo è diventato un typos e nelle opere monastiche di Cassiano si può osservare un processo di monachenizzazione nel quale san Paolo era, si potrebbe dire, vestito con abito di un monaco.
III. Nel capitolo terzo è stata proposta l'analisi di alcuni testi che volevano mostrare i vari modi di usare i testi dell'Apostolo, da parte di Giovanni Cassiano. E' stata fatta per questo una scelta soggettiva degli aspetti di questo tema che di per sé è molto vasto. Tante cose, legate con l'esegesi dei testi paolini in Cassiano, sono state tralasciate (per esempio il tema del combattimento spirituale, dell'antropologia di Cassiano, della libera volontà, etc.). Le altre sono state appena toccate (soprattutto quelle sulla relazione fra la cultura ellenistica e l'esegesi o sui quattro sensi della Scrittura). Si pensa però che i cinque sottocapitoli possano offrire uno sguardo abbastanza largo e ricco e servire come punto di partenza per le future ricerche.
Nonostante questi limiti e mancanze nello studio qui presentato, si sono fatte alcune scoperte o approfondimenti. Fra quelle che sembrano essere più importante si possono elencare:
1. Lo studio ha messo in rilievo i problemi che si potrebbero chiamare, facendo una comparazione con le moderne ricerche biblico-esegetiche, come storico-critiche. Questo vuole dire che, toccando gli aspetti esegetici dell'Autore, il quale spesso era considerato dal punto di vista spirituale-teologico, si entra fortemente in un campo dove importanti sono non soltanto gli studi sulle fonti (patristico-monastiche, scritturistiche e ellenistiche) delle quali Cassiano si serviva. Importante diventa anche il contesto storico, nel senso molto ampio, nel quale venivano usati.
2. Così lo studio sul modo di interpretare alcuni testi paolini scelti, da Giovanni Cassiano, ha mostrato che l'Autore: (1) era un erede della tradizione ellenistica e dei Padri della Chiesa e dei Padri del Deserto; (2) d'altra parte, utilizzandola, era rimasto indipendente e creativo; questo vuole dire che non soltanto ha trasmesso e trasformato - come si dice spesso - una tradizione orientale e monastica sul terreno occidentale e latino, ma anche l'ha arricchita mostrando la propria originalità; (3) nella sua esegesi o nella sua interpretazione dei testi paolini dipendeva dal suo ambiente; esso si creava in contesto della vita di una comunità monastica con le sue strutture (distacco dal mondo, il modo di organizzare il tempo e il lavoro; l'Ufficio divino, etc.) e con alcuni ideali religiosi; (4) possedeva o creava alcuni schemi dei quali si serviva durante le sue esposizioni (le strutture "aritmetiche"); (5) collocava i testi paolini nel contesto del suo sistema teologico-ascetico; (6) aveva soprattutto scopi parenetici e morali; (7) ma anche talvolta li esponeva in contesto polemico (i messaliani); (8) era un pedagogo.
3. L'analisi dal punto di vista dei particolari versetti paolini ha mostrato che Giovanni Cassiano ha bene ripensato la struttura della sua opera. Alcuni brani scritturistici e i temi con essi legati ci appaiono in posti precisi e con rigore. Sembra, sulla base delle analisi fatte durante lo studio, che nell'intenzione di Cassiano alle Istituzioni corrisponda la prima parte delle Conferenze (i libri da 1 a 10) che altrove è stata completata della parte seconda ( i libri da 11 a 17). La parte terza ed ultima delle Conferenze voleva aggiungere le osservazioni che completavano tutte e tre le parti della sua opera monastica.
4. Sembra anche che sulla base dell'interesse proprio di Cassiano che riguarda i testi paolini, stava un grande interesse verso san Paolo che influiva su tutta la Chiesa dell'epoca. Penso che si possa dire anche di più, cioè: sulla base del movimento monastico dell'antichità già dalle sue origini stava una lettura attenta, profonda ed originale che si faceva soprattutto sull'Apostolo Paolo. Lo studio futuro in questa prospettiva dei testi pacomiani, delle lettere di sant'Antonio, dei testi dei Padri Cappadoci o di Giovanni Crisostomo, etc., potrebbe sviluppare e confermare questa ipotesi.
[1]Cf. S. MARSILI, Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico. Dottrina sulla carità e contemplazione, Roma 1936, p. 38-41; L. CHRISTIANI, Jean Cassien. La spiritualité du Désert, Lyon 1946, p. 11-14.
[2] Cf. C.TIBILETTI, “Giovanni Cassiano. Formazione e dottrina”, in Augustinianum 17 (1977) p. 357-358.
[3] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 40.
[4]Cf. A. KRISTENSEN, "Cassian's Use of Scripture" dal The American Benedictine Review 28 (1977) p. 276-288; vedi anche A. DE VOGÜE, la recensione dell'articolo di Kristensen in Collectanea Cistersiensia 2 (1978) p. (313-315).
[5] Cf. E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen, III, Leipzig 1880, p. 209, nota 3; S. MARSILI, op. cit., p. 38; M. HARL, "Le guetteur et la cible: les deux sens de skopòs dans la langue religieuse des chrétiens", in Revue des études grecques 74 (1961) p. 450-468.
[6] Cf. M. HARL, op. cit., p. 451-452.
[7] S. MARSILI, op. cit., p. 39, nota 1.
[8] CLEMENT D'ALEXANDRIE, Le Pédagoque, I,13,102,2, SCh 70, Paris 1960, p. 292-293: Le devoir est convenable, et de son coté l'obéissance est fondée sur les préceptes. Ceux-ci, identiques aux commandements, ont pour but la vérité (ten aletheian echousai skopon); ils conduisent jusqu'au point extrême du désir, que l'on conçoit comme la fin (telos). Or la fin de la religion, c'est le repos éternel en Dieu, et notre propre fin est le début de l'éternité (telos de estin theosabeìas he aidios anapausis en to theo, tou de aionos estin arche to hemeteron telos); - Les Stromates, II, SCh 38, Paris 1954, p. 136-137: Il admet donc comme but de la foi "la ressemblance à Dieu autant qu'il était possible de devenir saint et juste avec intelligence, et comme fin (de l'homme) la réalisation de la promesse, réalisation qui repose sur foi" (skopon tes pisteos hupotithetai, telos de ten epi te pìstei tes epaggelias apokatastasin); anche nella opera Le Pèdagogue, II,10,83,1, Clemente distingue nel matrimonio fra atto procreativo (skopos) e la possesione dei bambini (telos); vedi anche M. SPANNEUT, Le Stoicisme et les Pères de l'Eglise de Clément de Rome à Clément d'Alexandrie, Paris 1957, p.260.
[9] Cf. M. HARL, op. cit., p. 454.
[10] Cf. M. HARL, op. cit., p. 457-461; dove sono citati molti esempi legati sopratutto con il tema dello skopos.
[11] EVAGRIO PONTICO, Epistula fidei, 7, in BASILIO DI CESAREA, Le Lettere, I, introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione, commento a cura di M.F. Petrucco, Torino 1983, p. 98: "epei kai autos esti to telos epizetonsi kai he eschate makariotes"; - Le Gnostique ou celui qui est devenu digne de la science, 49, SCh 356, p. 191: "skopos tes men praktikes ton noun apokathapizein, kai ton pathon ou dektikon kathistanai"; cf. S. MARSILI, op. cit., p.93.
[12] Cf. M. HARL, op. cit., p. 459.
[13] Giovanni Cassiano, Conlationes, 1,4,3; Conferenze spirituali, trad. Italiana a cura di O. Lari, Roma 1966, p. ...; nelle note seguenti Conferenze spirituali sono citate come Conl., e le pagine della tradizione italiana sono segnati nella parentesi: Conl., 1,4,3 (...).
[14] Cassiano non distingue come Evagrio fra "regnum dei" e "regnum caelorum"; cf. S. MARSILI, op. cit., p. 40.
[15] Conl., 1,5,2.
[16] Cf. Mt 10,22; 17,25; 24,6,13,14; 26,58; Mc 3,26; 13,7, 13; Lc 1,33; 18,5; 21,9; 22,37; Gv 13,1; Rm 6,21,22; 10,4; 13,7; 1 Cor 1,8; 10,11; 15,24; 2 Cor 1,13; 3,13; 11,15; Fil 3,19; 1 Ts 2,16; 1 Tm 1,5; Eb 3,6; 3,14; 6,8,11; 7,3; Gc 5,11; 1 Pt 1,9; 3,8; 4,7,17; Ap 1,8; 2,26; 21,6; 22,13.
[17] Conl., 1,5,2 (...).
[18] ibid.
[19] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 39-40, nota 5.
[20] Interessante è notare che Mario Vittorino usa lo stesso brano di Paolo nel suo commentario alla lettera di San Paolo ai Filipesi 3,13-14; al posto del termine skopos (tradotto da Cassiano con "destinatio") mette la parola "regula" e la lega con l'osservanza dei precetti evangelici: "sequenda secundum regulam disciplinamque praeceptorum a Christo, ut ad bravium supernae vocationis, in Christo tamen Iesu, venire possimus"; cf. MARIO VITTORINO, Commentarii in Epistolas Pauli ad Ephesios, ad Galatas, ad Philippenses, edizione critica con introduzione, traduzione italiana, note e indici a cura di F. Gori, Torino 1981, p. 362.
[21] Si può osservare una interpretazione abbastanza simile del brano Fil 3,13 in altri luoghi nelle opere di Cassiano; cf. Inst., 5,17,2; 11,6,1; Conl., 6,14,1; 20,8,11. Probabilmente provengono dalla Vita di Antonio, 7, 20 e 66.
[22] Esisteva nell'epoca patristica una "regola" esegetica; essa permetteva ad interpretare un testo scritturistico con un'altro; cf. per esempio: M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma 1985, p. 39 e 83, etc.
[23] Cf. Conl., 1,6,2-3 (...).
[24]Conl., 1,7,2 (...).
[25] Cf. Conl., 1,10.15 (...); S. MARSILI, op. cit., specialmente le pagine 65-73.
[26] Cf. Inst., 2,11,3; 3,7,1; 3,8,4; etc.
[27] Cf. Conl., 21,20,1; 21,24-28.
[28] Cf. Inst., 12,14,1; 3,6,1; etc.
[29] Per la numerologia dei Padri si veda per esempio: A. QUACQUARELLI, "Recupero della numerologia per la metodica dell'esegesi patristica", in ASE, 21 (1985), p. 235-249.
[30] Cf. Inst., 5,1,1.
[31] Cf. Conl. Praef., 1,1; 2,1.
[32] Cf. Conl. Praef., 2,1; 3,1.
[33] ibid.
[34] Cf. Conl., 24,1,1.
[35] Cf. Conl., 14,8,2-3.
[36] Cf. Conl., 8,17,1; 13,12,7.
[37] Cf. Inst., 12,2,1; Conl., 5,3-12; etc.
[38] Cf. Conl., 3,4,1; 3,11,1.
[39] Cf. Conl., 3,6,1; 3,6,6.
[40] Cf. Conl., 4,19, 1-2.
[41] Cf. Conl., 1,19,1.
[42] Cf. Conl., 6,3,1.
[43] Cf. Conl., 9,5,2.
[44] Cf. Conl., 10,14,1.
[45] Cf. Conl., 11,6,1-2.
[46] Cf. Conl., 14,8,1.
[47] Cf. Conl., 18,4,2.
[48] Cf. Conl., 9,11,2; 9,15,1; 9,17,1-4.
[49] Cf. Conl., 14,8,4.
[50] Cf. Conl., 14,3,3.
[51] Cf. Conl., 12,7,2.
[52] Cf. Conl., 16,14,3.
[53] Cf. Conl., 18,16,11.
[54] Cf. Conl., 1,13,6; 3,10,1-2.
[55] Cf. Conl., 16,14,2.
[56] Cf.H.I. MARROU, St. Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958, p. 261, 450-451; W.G. MOST, "The Scriptural Basis of St. Augustin's Aritmology", in CBQ, 13 (1951), p. 284-295.
[57] Cf. I. LORETI, "Simbolica dei numeri nella 'Expositio Psalmorum' di Cassiodoro", in VetChr, 16 (1979), p. 41-55.
[58] Cf. Conl., 11,6,1.
[59] Cf. Conl., 4,19,1.
[60] Cf. V. GROSSI, Lineamenti di antropologia patristica, Roma 1983.
[61] Cf. Conl., 4,19,2-7.
[62] Cf. Conl., 5,11,1.
[63] Cf. Conl., 5,11,3.
[64] Cf. Conl., 5,11,4-5.
[65] Cf. Conl., 5,11,6.
[66] Cf. Conl., 5,11,6.
[67] Conl., 5,11,4.
[68] Cf. Conl., 5,11,5.
[69] Conl., 5,11,7.
[70] ibid.
[71] Cf. G.H.LIDDEL e R. SCOTT, Dizionario illustrato greco-italiano, edizione adattata e aggiornata a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, F. di Benedetto, e Monnier-Firenze 1975, p. 602, 830 e 914.
[72] Sir 27, 30: "Anche il rancore e l'ira (menis kai orge) sono unabominio, il peccatore li possiede. 28, 3 : Se qualcuno conserva la collera (orge) verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? 4 : Egli non ha misericordia per l'uomo simile, e osa pregare per i suoi peccati? 5 : Egli, che è soltanto carne, conserva rancore (menin); 9 : Un uomo peccatore semina discordia tra gli amici e tra persone pacifiche diffonde calunnie. 10 : Secondo la materia del fuoco, esso s'infiamma, una rissa divampa secondo la sua violenza; il furore (thumos) di un uomo è proporzionato alla sua forza, la sua ira (orgen) cresce in base alla sua richezza. 18 : Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua. 19 : Beato chi se ne guarda, chi non è esposto al suo furore (thumo)". Il testo italiano è stato citato secondo La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1989 (4 edizione).
[73] Cf. Conl., 9,9,1.
[74] Cf. Conl., 9,17,4.
[75] Cf. Conl., 9,9,1.
[76] ibid.
[77] Cf. Conl., 9,11,1.
[78] Cf. Conl., 9,12,1.
[79] Cf. Conl., 9,13,1.
[80] Cf. Conl., 9,14,1.
[81] Cf. Conl., 9,17,4.
[82]Conl., 9,10,1.
[83] Qui abbiamo a che fare con una regola ermeneutica, ellaborata da Origene, secondo la quale ogni parola della Scrittura ha il suo senso spirituale e "tutta la Scrittura, in ogni parola ha la sua precisa ragion d'essere" ed utile all'interpretazione", M. SIMONETTI, op. cit., p. 79; cf. ORIGENE, Traité des principes, IV,1,7, SCh 268, p. 287-288, con le note in SCh 269, p. 165.
[84] Cf. Conl., 9,15,1.
[85] Conl., 9,17,4.
[86] Cf. Conl., 14,8,1-7.
[87] Cf. H. DE LUBAC, Esegesi Medievale. I quattro sensi della Scrittura, parte prima, volumi primo e secondo, trad. it. di G. Auletta, Milano 1986.
[88] Cf. M. OLPHE-GALLIARD, "La science spirituelle d'après Cassien", in RAM, 18 (1937), p. 141-160.
[89] Cf. Conl., 14,8,1.
[90] Cf. Conl., 14,8,4.
[91] M. SIMONETTI., op. cit., p. 358.
[92] Cf. Conl., 14,8,4.
[93] Cf. Conl., 14,8,5-7.
[94] Conl.,14,8,2.
[95]Conl., 14,8,7.
[96]Conl., 14,8,2.
[97]Conl., 14,8,5.
[98]Conl., 14,8,3.
[99]Conl., 14,8,6.
[100] Il termine già era utilizato da Origene nella sua concezione della Scrittura; lui esigeva di inalzarsi, nell'interpretazione di essa, dal livello sensibile, a questo intelligibile; cf. M. SIMONETTI, op. cit., p. 80.
[101] Cf. Conl., 14,8,3.
[102] Cf. Conl., 14,8,6.
[103] Cf. AA.VV., "Priére", in DSp, XII (2), soprattutto coll. 2247-2271.
[104] Cf. A. VAN DER MENSBRUGGHE, Prayer in Egyptian Monasticism, Berlin, 1955, p. 435-454 (Studia patristica 2); A. de VOGÜE, "'Orationi frequenter incumbere'. Une invitation à la prière continuelle", in RAM, 41 (1965), p. 467-472.
[105] Cf. M. OLPHE-GALLIARD, op. cit., coll., 223-225; 264-266. Si nota sopratutto l'influsso di Origene; cf. S. MARSILI, op. cit., p. 153-156.
[106] Cf. Inst., 2,1,1; 8,13,1; Conl., 9,3,4; 9,6,5; 9,7,3; 10,14,2; 23,5,8.
[107] Cf. Conl. Praef., 1,4; 9,7,4.
[108]Conl., 9,7,4.
[109]Conl., 9,6,4.
[110] Cf. R. TAFT, La liturgia delle ore in Oriente e in Occidente, trad. it. di I. Gargano, Milano 1988, p. 135-152.
[111]Conl., 10,14,2.
[112]Conl., 23,5,9.
[113]Conl., 8,13,1.
[114]Conl., 9,3,4.
[115]Conl., 10,14,2.
[116]Inst., 2,1,1: "Il soldato di Christo, una volta cintosi ai fianchi quel doppio cingolo (...) dovrà ora ben conoscere il criterio proprio delle orazioni canoniche e della recitazione dei Salmi, fissato dai padri fin dai tempi ormai remoti. In altra sede, quando cioè cominceremo ad esporre le "Conferenze" dei padri antichi nella misura che ci sarà conessa dal Signore, parleremo della natura di quelle preghiere e del modo con cui ci è possibile pregare "senza interruzione", secondo l'espressione dell'Apostolo".
[117]Conl.Praef., 5: "Dall'aspetto esteriore e visibile della vita monastica - di cui mi sono occupato in altri libri - passerò ora a trattare la vita interiore e invisibile. Dalla preghiera delle ore canoniche, vengo ora a trattare di quella 'preghiera continua' di cui parla san Paolo".
[118] Inst., 8,13,1.
[119] Inst., 8,13,1; cf. anche Conl., 9,3,4.
[120] Cf. Conl., 10,14,2.
[121] ibid.
[122] Cf. per esempio Conl., 9,7,3; 23,5,9.
[123] ibid.
[124] Cf. Conl., 10,14,2.
[125] Cf. Conl., 9,3,4.
[126] Cf. Conl., 10,14,2.
[127] Cf. Conl., 23,5,9.
[128] Cf. Conl., 9,6,5.
[129] ibid.
[130] ibid.
[131] Cf. Inst., 10,7-19.
[132] Cf. Inst., 1,5,1.
[133] Cf. Inst., 2,3,3.
[134] Cf. Conl., 18,11,1-5 (1 Ts 3,8); Conl., 23,5,4 (1 Ts 3,8); Conl., 24,11-12 (1 Ts 3, 7-10).
[135] Cf. Inst., 10,7,1-5.
[136] Cf. Inst., 10,7,6-10,16-1.
[137] Cf. Inst., 10,12,1.
[138] Cf. Inst., 10,12,1.
[139] Cf. Inst., 10,21,1-4.
[140] Cf. Inst., 10,21,4-5.
[141] Cf. Inst., 10,7,1.
[142] Cf. Inst., 10,7,1 e 7, 10,14,1.
[143] Cf. Inst., 10,7,1 e 10,12-14.
[144] Cf. Inst., 10,7,3.
[145] Cf. Inst., 10,7,2; 10,12,1; etc.
[146] Cf. Inst., 10,7,1-3.
[147] Inst., 10,7,3.
[148] Inst., 10,7,4.
[149] Cf. Inst., 10,7,4-5.
[150] Inst., 10,7,5.
[151] ibid.
[152] Cf. Inst., 10,7,6.
[153] Cf. Inst., 10,8,1.
[154] Inst., 10,8,2.
[155] Cf. Inst., 10,8,3-10,9,1.
[156] Cf. Inst., 10,10-11.
[157] Cf. Inst., 10,13-16.
[158] Cf. Inst., 10,17-19.
[159] Cf. Inst., 10,19,1 e 10,22,1.
[160] Cf. Conl., 18,8,1-2.
[161] Cf. Conl., 18,9-11.
[162] Cf. Conl.,18,12-16.
[163] Cf. Conl., 18,11,2.
[164] Cf. SERAPIONE, 4 (878), in Vite e detti dei Padri del Deserto, a cura di Lucina Mortari, Roma 1975, p. 186. Si suppone che nel fondo della spiegazione di Cassiano sta una tradizione egiziana che nella sua forma più originale è stata conservata nell'Apophtegmata.
[165] ibid.
[166] Conl., 18,11,3.
[167] ibid.
[168] Conl., 24,10,1.
[169] Conl., 24,12,1. Si nota anche che qui esiste una fonte che proviene dalla Vita di Antonio, dove Atanasio dice che il giovane monaco Antonio: "pesava la propria mente perché non si sviasse e non tornasse a rimpiangere le ricchezze dei genitori; non aveva più ricordo della famiglia, ma tutto il suo desiderio e il suo zelo erano concentrati nell'ascesi cristiana. Lavorava con le sue proprie mani, avendo sentito che sta scritto: 'L'uomo sfaccendato e ozioso non abbia di che mangiare' (2 Ts 3,10). Parte del suo lavoro la dedicava a procurarsi il pane; il resto lo spendeva per i poveri"; ATANASIO, Vita di Antonio, 3, 5-6.
[170] Cf. per esempio J. DECARREAUX, Les moines et la civilisation en Occident, Paris 1962, p. 144 dove scrive sul Lerino nell'epoca di Cassiano con quale lui aveva, come si sa, il contatto: "Lérins, encore à l'abri du monde où s'installent les Barbares, est le refuge de la haute culture...En arrivant dans les îles, les grands moines apportaient une formation première qu'ils tenaient de leur naissance et de leur éducation antérieure. Les relations, les affinités sociales ou intellectuelles ont...réuni en une sorte de collège monastique ces aristocrates des lettres et de la religion"; cf.F. PRINZ, Frühes Mönchtum im Frankenreich. Kultur und Gesellschaft in Gallien, den Rheinlanden und Bayern am Beispiel der monastischen Entwicklung, München-Wien 1965.
[171] Le informazioni fondamentali si trovano per esempio: A. GUILLAUMONT, "Messaliens", in DSp, X, coll. 1074-1083.
[172] Cf. M.G.MARA, "Una particolare utilizzazione del corpus paolino nell'Epistula ad monachos", in Mémorial Dom Jean Gribomont (1920-1986), Roma 1986, pp. 411-418.
[173]Dicono (cioè i messalianisti) di rifiutare, come abominevole, il lavoro manuale, e perciò chiamano se stessi 'spirituali', non considerando possibile né giusto che tali persone tocchino oggetti sensibili. Anche in questo aboliscono la traduzione degli Apostoli, TIMOTEO DI CONSTANTINOPOLI, De iis qui ad Ecclesiam accadunt, PG 86, 50; cito secondo M. PAPAROZZI, La "Grande Lettra" di Macario/Simeone. Introduzione, Roma 1983, p. 8.
[174] "Introducono poi una durezza disumana nei confronti dei poveri, dicendo che per chi rinuncia al mondo o comunque inizia a dedicarsi ad opere di bene non è opportuno contentarsi dei pubblici mendicanti, delle vedove rimaste sole, di chi deve affrontare disgrazie o impedimenti fisici o malattie o spietati usurai, o ha subito incursioni di briganti o barbari o simili sciagure; bisogna invece dare tutto a loro. Sono loro infatti - dicono - i veri poveri nelle spirito", GIOVANNI DAMASCENO, De haeresibus compendium, 80 , PG 94, 731; cito secondo, M. PAPROZZI, op. cit., p. 11. Certo che queste testimonanze sono tendentivi, dall'altra epoca e dall'altro ambiente, però probabilmente corrispondano anche alle generale tendenze del movimento che erano presenti anche nella Provenza nei primi decenni del quinto secolo.
[175] Cf. M.G. MARA, op. cit., p. 417.
[176] Cf. E. GRIFFE, "Cassien a-t-il été prêt d'Antioche?", in BLE, 55 (1954), p. 140-145.
[177] Cf. M.G. MARA, op. cit., p. 416.
[178] P. KRAMMER, Charisma maximum, untersuchung zu Cassians Vallkommenheitslehre und seiner stellung zum Messalianismus, Lowen, 1938.
[179] Cf. Cf. M.G. MARA, op. cit.
[180] Cf. Conl., 3,7,9-11, dove Mt 19, 21 vene meso insieme con 1 Cor 13, 3-7; o Inst., 10,21,3 dove è citato Giov 4, 34 e 6, 27 insieme con 1 Ts 4, 11-12 ( sono i brani spesso usati per i messalianisti); cf. M.G. MARA., op. cit., 415-416.
[181] Cf. Conl., 24,10,1.
[182] Cf. Conl., 24,12,1.
[183] Conl., 23,5,4.
[184] Neanche nella sua ultima opera rivolta contro Nestorio.
[185] Cf. Conl., 11,6,1-2; 11,9,1; 11,10,1,; 11,12,7-8; 11,13,7.
[186] Cf. Conl., 1,6,2-3; 1,11,1-2.
[187] Cf. Conl., 3,7,7-11.
[188] Cf. Conl., 15,2,2-3; 15,7,5.
[189] Cf. Conl., 16,22,4; 16,27,2-3.
[190] Cf. Conl., 7,5,6.
[191] Cf. Conl., 8,25,6.
[192] Cf. Conl., 17,19,7.
[193] Cf. A. DE VOGÜE, "Pour comprendre Cassien. Un survol des 'Conférences'", in CCist, 39 (1977), p. 250-272.
[194] ibid.
[195] Cf. Conl., 11,12,7: "si linguis hominum loquar et angelorum"; Conl., 15,2,3: "hominum et linguis angelorum".
[196] Cf. Conl., 11,12,7: "et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia, et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam"; Conl., 15,2,3: "et plenitudini fidei, quae etiam montes transferat, et omni scientiae ac prophetiae".
[197] Cf. Conl., 1,6,2; 3,7,7; 11,12,7.
[198] Cf. Conl., 3,7,9.
[199] Cf. Conl., 15,2,3. Invece "tredidero corpus meum" Cassiano mette l'espresione "glorioso martirio".
[200] Cf. Conl., 3,7,11: "caritas quae patiens et benignus".
[201] Cf. Conl., 7,5,6.
[202] Cf. Conl., 1,6,3: "non aemulari, non inflari, non iritari (cf. 1 Cor 13,5), non agere paerperam, non quaeres quae sua sunt (1 Cor 13,5), non super iniquitate gaudere (cf. 1 Cor 13,5), non cogitat malum (1 Cor 13,5)".
[203] Cf. Conl., 1,6,3: "non aemulari, non inflari, non irritari, non agere perperam, non quaerere quae sua sun, non super iniquitate gaudere, non cogitare malum"; Conl.,3,7,9: "quae patiens, quae benigna est, quae non aemulatur, non inflatur, non irritatur, non agit perperam, non quaerit quae sua sunt, non cogitat malum, quae omnia suffert, omnia sustinet".
[204] Cf. Conl., 16,22,4; 17,19,1.
[205] Cf. Conl., 11,10,1: "non irritatur, non inflatur, non cogitat malum, omnia suffert, omnia sustinet".
[206] Cf. Conl., 3,7,11; 7,5,6; 11,10,1; 16,27,2.
[207] Cf. Conl., 1,11,1.
[208] Cf. Conl., 11,13,7; 11,17,8.
[209] Conl., 8,25,6.
[210] Conl., 11,6,1.
[211] Conl., 11,9,1.
[212] Conl., 15,2,3.
[213] Conl., 8,25,6.
[214] Conl., 11,6,2: "nunc, inquit, manet fides, spes, caritas, tria haec".
[215] Cf. Conl., 7,5,1-4.
[216] Cf. Conl., 7,5,6.
[217] Cf. Conl., 8,25,6.
[218] Cf. Conl., 15,2,2-3; 15,7,5.
[219]Conl., 15,2,2; una simile spiegazione con una allusione a 1 Cor 13, 4 si trova nel secondo brano di questa conferenza, cf. Conl., 15,7,5.
[220]Conl., 15,2,3.
[221] Cf. Conl., 16,22,4.
[222]Conl., 17,19,7; Cassiano cita: "nemo quod suum quaerat, sed quod alterius (1 Cor 10,24), caritas non quaerit quae sua sunt (1 Cor 13,5), sed ea quae aliorum (Fil 2,4), non quaero quod mihi utile, sed quod multis, ut salvi fiant (1 Cor 10,33)". A questa costruzzione permettono le tre ripetizioni messi in seguto: nemo, non, non; quaeret, quaerit, quaero; sed, sed, sed; e alterius, aliorum, multis.
[223] Cf. Conl., praef., II,2, dove Cassiano scrive: "quibus ea, quae de perfectione in praeteritis opusculis nostris obscurius forsitan conprehensa vel praetermissa sunt, supleantur"; cf. anche A. DE VOGÜE, op. cit.
[224] BOSSUET, Tradition des nouveaux mystiques, Edit. Ferrère, 1863, t. 9, 630-680 (cito secondo M.OLPHE-GALLIARD, "Les sources de la conférence XI de Cassien", in RAM, 1935, 289-298, nota 1.
[225] M. OLPHE-GALLIARD, op. cit.
[226] S. MARSILI, op. cit, soprattutto le pagine 101, 116-121, 156-157.
[227] Cf. Conl., 11,6,1; 11,9,1.
[228] Cf. Conl., 11,12,8; 11,13,7.
[229] PL 49, 851, nota c.
[230]Conl., 11,6,1; un schema simile che unisce le tre virtù sottolineando la carità "quae numquam cadit" si trova anche nel capitolo 9,1 di questa conferenza.
[231] In modo esplicito l'Autore si referisce alla 1 Cor 13, 13; cf. Conl., 11,6,2, dove dice: "Et idcirco beatus apostolus omnem salutis summam in istarum trium virtutum consummatione concludens 'nunc', inquit, 'manet fides, spes, caritas, tria haec".
[232] Cf. S. MARSILI, op. cit., p. 118-119.
[233]Conl., 11,12,8.
[234] Si nota che l'Autore, riferirendosi a 1 Cor 13, 8, usa l'espresione "caritas vero perpetuo permansura"; cf. Conl., 15,2,3; o anche aggunge al versetto "caritas quae nescit cadere", come complemento l'espressione "inmobilis permanseret"; cf. Conl., 8,25,6. Sottolineamo una dimensione temporale che ci appare accanto a quaesta morale.
[235] Cf. Conl., 11,13,7: "Tanta enim ubertatis eius est magnitudo, ut, quem semel sua virtute possederit, non partem, sed totam eius occupet mentem. Nec inmerito. Illi etenim quae 'numquam excidet' (1 Cor 13, 8) cohaerans caritati non solum replet, sed etiam perpetua et inseparabili eum quem ceperit possidet iugitate, nullis laetitiae temporalis vel voluptatum oblectationibus inminutus".
[236] Cf. S. MARSILI, op. cit., 119.
[237] Conl., 1,6,3.
[238] Conl., 3,7,8.
[239] Conl., 3,7,10-11.
[240] Conl., 11,10,1.
[241] Conl., 1,7,2.